Valentina Barbieri
Di ogni cosa amo rapirne il cuore e portarmelo a casa. E così ho fatto per l’universo scheggiato che mi è capitato di incontrare alla 16esima edizione del Festivaletteratura di Mantova. Se ammettiamo infatti che in un tale brulicare di bella cultura possa in qualche modo esistere un certo punto di convergenza, non avrei nessun timore a identificarlo nella complessa e frammentaria eredità del Novecento. Perché, dopotutto, sempre di attualità si tratta. Di un’attualità che ha spinto l’uomo contemporaneo sulla soglia di una crisi di nervi in cui è caduto in pieno anche il mondo della cultura, con tutti i suoi limiti e le sue molteplici espressioni. Il disagio non è dunque mancato al fianco della bellezza. Partendo dai due premi Nobel per la Letteratura giunti a Mantova: Seamus Heaney e Toni Morrison. L’uno grande poeta dell’indipendentismo irlandese, l’altra una delle più importanti scrittrici afro americane di tutti i tempi. Uniti entrambi dal beffardo destino di stare dalla parte dei diversi. Delle cosiddette minoranze escluse. Ed eccolo lì: il limite. A ricordarci che la letteratura non smetterà mai di descrivere soprusi compiuti dall’uomo contro l’uomo. Ma inoltre: la letteratura non riuscirà mai nemmeno a trovarne la causa, di questa violenza reiterata da millenni.
A proposito, al Festival è arrivata un’orda di scrittori d’origine ebraica: Shaul Ladany, Etgar Keret, Shalom Auslander, Eskhol Nevo. A fianco di questi, anche importanti personalità dell’Europa dell’Est come Peter Nadas e Olga Tokarczuk. E ancora fotoreporter illustri come il trio formato da Emmanuel Guibert, Alain Keler e Frédéric Lemercier, storici come Sönke Neitzel. Tutti concordi nell’ intento di raccontare attraverso la scrittura o la fotografia la lotta umana per la sopravvivenza. O meglio, la piaga della prevaricazione. E poi sono finalmente giunti gli omaggi, quelli consueti che i letterari d’oggi porgono ai veri e propri maestri. Al poeta Ezra Pound, padre indiscusso di quell’amalgama linguistico e simbolico che rappresenta ancora oggi una delle più moderne risposte all’esigenza di dare voce ad un mondo ormai giunto al collasso. Ascoltare il proemio dei “Cantos”, letto dalla figlia novantenne del poeta Mary De Rachewiltz è stato come riabbracciare
l’incarnazione di quel primo Pound, ancora lindo da fuorvianti interpretazioni. E così è stato porre l’orecchio alla poesia di Wislawa Szymborska, madre ironica della poesia del Novecento. Polacca, amante del kitsch, straordinariamente autentica nella sua semplicità più pura. Anche lei posta davanti all’esigenza soffocante di dover esprimersi in un secolo contraddittorio ed epocale . La Szymborska a questo rispose con la leggerezza propria delle menti(poche) che sanno svestire dal loro peso le circostanze terrene. E chi meglio del teorico della postmodernità Zygmunt Bauman, anche lui al Festival, poteva parlare di quel mondo scheggiato dalla frenesia che ci impone una vita sempre più “liquida”. A ciò si è aggiunto l’attesissimo intervento conclusivo della kermesse del sociologo Edgar Morin, ideatore di quella “riforma educativa che permetterebbe di affrontare in tutta la loro complessità i problemi fondamentali dell’era planetaria”.
Eh sì, questa edizione del Festivaletteratura non poteva proprio avere veste migliore delle celebri ottave del Furioso. Ludovico Ariosto scrutò a lungo quel dinamismo costante che costringe l’uomo alla frustrazione e all’incanto; dopotutto il Furioso rimane una delle più riuscite metafore dell’esistenza. E così a Palazzo Te la cultura si è rispecchiata nel volto dell’uomo, di tutti noi che, morsi dalla crisi, continuiamo ad andare a Mantova per sbattere contro i nostri dubbi e abbandonarci al bello.