Il male radicale non è un’entità astratta, una categoria filosofica che si definisce come assenza del bene. Se Dio non esiste, manca il principio fondante del bene e dunque rimane solo il suo opposto dialettico che si estende fino alla negazione e all’annientamento dell’uomo. “Se Dio non esiste allora tutto è permesso”, è la teoria di Ivan Karamazov .
Il male assoluto che si è manifestato nei campi di concentramento e annientamento nazisti “con l’esercizio di un bio-potere estremo” è qualcosa che attiene ai rapporti fra gli umani e in questo senso è frutto terribile della civilizzazione e della modernità: “Il male non è una cosa, ma un rapporto” (Vladimir Jénkélévitch)
Se guardiamo a come si è praticata la violenza nella storia dell’uomo, ci imbattiamo in crudeltà e malvagità senza limiti. Ma queste azioni provenivano da individui e da popoli che erano mossi da finalità storicamente identificabili: la lotta per conquistare territori e risorse, diffondere un credo religioso, dare libero sfogo alla volontà di potenza di leader ambiziosi e senza scrupoli, estendere il proprio potere su altri popoli. Gengis Khan sterminava la popolazione di un villaggio, perché gli altri non opponessero resistenza.
Nel Novecento, al contrario, il male è diventato soppressione della dignità umana, della sua pluralità e della sua libertà, gratuito assassinio organizzato mediante una delle più potenti ed efficienti macchine della morte realizzate grazie a tecnologie usate per uno scopo “insensato e irrazionale” di distruzione di uomini, donne e bambini.
E’ agghiacciante pensare che milioni di persone sono state soppresse soltanto per la loro appartenenza a gruppi etnici diversi, in particolare al ceppo semita. Schiacciati come insetti inutili e dannosi , dopo averli trasformati in identici “fasci di reazioni “, dopo aver annullato la loro individualità e il loro spazio di attività nella comunità umana: “Demolire l’umano nell’uomo prima ancora di ucciderlo..una cosa unica nella pur sanguinosa storia dell’umanità” (Primo Levi).
Come si è potuti arrivare alla “dissoluzione totale dell’humanitas nelle relazioni umane e sociali costruita nei secoli”? E’ possibile definire una responsabilità individuale al di là di un sistema che funziona proprio grazie a un subdolo meccanismo di deresponsabilizzazione basato sulla rinuncia al pensiero e all’esame interiore?
Sono queste le domande che pone Vittoria Franco nel su ultimo saggio “Il male del Novecento” edito da Castelvecchi. Ultima stazione di un percorso che ha portato la studiosa , già docente presso la Scuola Normale di Pisa, senatrice della Repubblica dal 2001 al 2013, ad approfondire concetti fondamentali della convivenza (Responsabilità . Figure e metamorfosi di un concetto, 2015 e Parole della convivenza , 2020, quest’ultimo realizzato come curatrice e insignito del Premio Amerigo della Quattro Libertà 2021).
Per trovare risposte a questi interrogativi , l’autrice passa in rassegna le opere di coloro che hanno affrontato il tema da diversi punti di vista allo scopo di ricostruire un quadro di razionalità per un evento della storia umana che stravolge qualunque principio dell’agire razionale. Solo riportando quanto accaduto alla potenza analitica e purificatrice del ragionamento si può riuscire a dominare l’orrore che la Shoah suscita e porre barriere efficaci per evitare che si ripresenti.
Nella sua analisi Vittoria Franco si confronta con pensatori come Vladimir Jénkelevich, Luigi Pareyson , Emmanel Lévinas, Zygmunt Baumann, Philippe Nemo e soprattutto le due filosofe con le quali si sente più in consonanza Agnes Heller e Hanna Arendt. Partendo dai grandi maestri fondatori dell’etica e della morale Immanuel Kant, Agostino e Socrate e chiamando a sostenere l’argomentazione anche chi è stato testimone dei campi come Primo Levi.
Testimonianze, come la figura di Lorenzo nel racconto di Levi, che rappresentano un fortissimo argomento contro tutti coloro che sostengono che i “volenterosi carnefici di Hitler” non potevano fare diversamente da quello che hanno fatto sia pure come infima rotellina di un meccanismo che voleva attraverso il terrore, l’ideologia, i fumi dell’orgoglio nazionalistico, l’offerta di particelle di potere, atrofizzare la facoltà di pensare, di “dialogare con se stessi” e dunque attivare la voce della coscienza.
Potevano scegliere di dire di no, come hanno fatto coloro che si sono opposti a rischio della vita. Così Adolf Eichmann, efficiente organizzatore del sistema dei trasporti che andavano ad alimentare la produzione di cadaveri dei forni crematori. Non era solo un funzionario tenuto all’obbedienza e avrebbe potuto decidere di sottrarsi. La sua rinuncia al pensiero e il suo attaccamento al potere si svelano nel “guscio vuoto” di un essere che ha abdicato totalmente alla sua umanità raccontato da Hanna Arendt nel “La banalità del male”. L’agghiacciante scissione della personalità delle SS, amanti di una vita borghese, serena e agiata e massacratori per professione di uomini ridotti allo stato elementare di corpi e sensazioni, è stata messa in luce dal recente film “La zona di interesse”.
“Il male del Novecento” è un libro da leggere e meditare dunque con grande partecipazione, riflettendo su quello che potrebbe ripresentarsi come male assoluto in questo nuovo secolo. “Sono grandi interrogativi su cui l’evento della Shoah impone di riflettere in termini nuovi”.
Se l’Olocausto (la distruzione totale della vittima attraverso il fuoco) fu anche il prodotto di un uso perverso delle tecnologie e dei nuovi modelli di organizzazione della produzione industriale, nonché della capacità di dare vita a perfetti sistemi burocratici basati sulla frammentazione degli incarichi e delle responsabilità, domandiamoci che cosa potrebbe accadere se l’intelligenza artificiale dovesse diventare strumento di un potere che, come quello nazista, annulla la dignità dell’individuo e lo degrada a superfluo sottoinsieme in balia del dispotismo dell’algoritmo. Dunque quanto accaduto nei Lager “è una responsabilità di cui tutta l’umanità deve farsi carico”.
Come antidoto al possibile riaffiorare di condizioni favorevoli per una riedizione del male assoluto, l’autrice sottolinea “il ruolo che possono avere, nello spazio pubblico, anche sentimenti che coltivano la prossimità e la responsabilità verso l’altro, soprattutto in tempi in cui la relazione viene improntata all’odio e al disprezzo dell’altro anche senza giungere al male estremo”. Il richiamo è alla figura di Lorenzo raccontata da Levi: “Perché tenere fuori dall’amicizia quei gesti di fraternità, di bontà e di solidarietà, di apertura che tengono viva l’umanità degli esseri umani?”. Questi gesti consentono di “creare la possibilità di ricostruire l’etica distrutta ad Auschwitz, come lo è far riemergere in primo piano la forza della relazione e dell’interdipendenza fra individui umani per porre un limite al sentimento di cupio dominandi e rispondere con un no al personaggio di Dostoevski.
Non smettiamo di domandarci se le guerre in atto, con l’abitudine a contare morti anonimi e lontani, non possano essere una sorta di preparazione all’imporsi di un nuovo male radicale e renderci disposti a negare il diritto alla vita di ogni uomo.