Il lungo assedio: diario della “guerra silenziosa” contro il terrorismo

Firenze – Alcuni osservatori internazionali si mostrano sorpresi dal fatto che l’Italia finora sia stata risparmiata dagli attacchi del terrorismo jihaidista. Alcuni azzardano risposte folcloristiche come lo scrittore franco-marocchino Ben Jalloud: “E’ grazie all’aiuto della mafia se finora l’Italia è stata al riparo”.

Chi ha dei dubbi sulla professionalità, l’organizzazione, l’esperienza delle forze antiterrorismo della Repubblica dovrebbe leggere il libro “Il Lungo Assedio – La lotta al terrorismo nel diario operativo della Sezione Speciale Anticrimine Carabinieri di Roma”, scritto da colui che per 12 anni ne è stato il comandante, Domenico Di Petrillo (Editore Melampo).

E’ la storia di come un gruppo di uomini “professionali, organizzati e omogenei” che “con dedizione assoluta e inderogabile attenzione alle modalità operative” riuscirono a rendere inoffensiva la più grave minaccia alla stabilità della democrazia italiana rappresentata da quel fenomeno che rimane ancora largamente da studiare del cosiddetto Partito armato: Brigate rosse e tante sigle che le accompagnavano.

Si tratta di un contributo importante alla ricostruzione degli anni di piombo, perché ancora oggi la tribuna mediatica è occupata per lo più dalll’autogiustificazionismo di coloro che si resero responsabili della morte di tante persone, scelte spesso solo per dare segnali di presenza, persone il cui destino è stato segnato da un’allucinazione alimentata da un’ideologia che stava cominciando a declinare laddove era diventata stato e potere. Forse fu proprio la percezione consapevole o inconsapevole del suo fallimento ciò che portò decine di giovani italiani a bruciare la propria esistenza.

Il versante della difesa dello Stato democratico si mostra al contrario  troppo spesso  presidiato da fazioni politiche o da ricostruzioni che aprono il fianco al grande gioco del complotto, alimentato da coincidenze e ipotesi suggestive, ma non sostenute da prove certe. E’ dunque necessario “pareggiare la partita della memoria”, come scrive Nando Dalla Chiesa nella prefazione.

Questo è l’obiettivo principale del diario operativo tematico-cronologico del colonnello Di Petrillo, oggi consulente per la sicurezza di grandi aziende italiane, che cominciò la sua esperienza di investigatore dell’antiterrorismo nel secondo Nucleo Speciale affidato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prima di assumere il comando della Sezione speciale di Roma. Successivamente è stato tra i fondatori della Dia come direttore del Centro Operativo di Roma, poi direttore della Divisione controterrorismo al Sisde.

Il libro invita tutti a partire dai fatti oggettivi contenuti nei rapporti di polizia giudiziaria, documentati e controllati attraverso i ricordi di chi c’era,  e sono quelli che alla fine contano per rendere efficace un’attività come l’Operazione Olocausto che in nove fasi successive, nell’arco di poco più di dieci anni, estirpò il terrorismo estremista di sinistra. Per questo, non troverete alcun giudizio neanche di fronte alle irresponsabilità, alle inefficiente, ai protagonismi di altri settori dello stato. Quante volte, per esempio, ricorre la secca precisazione – senza commenti – di “scarcerato per decorrenza dei termini” accanto al nome di terroristi pericolosi già intercettati e arrestati, poi tornati a colpire.

Questa freddezza e oggettività fattuale fa parte della formazione di un investigatore che ha come unico punto di riferimento il raggiungimento dell’obiettivo senza uscire dai limiti imposti dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato. Portando a casa i suoi uomini, come è avvenuto, “tutti incolumi”.

Alla base del successo c’era la “dottrina operativa inedita” impostata dal generale Dalla Chiesa al quale, come anche agli uomini della sua squadra, Di Petrillo dedica il diario. Il nuovo metodo partiva da un’indicazione semplice: “Non perseguire i responsabili delle singole azioni terroristiche, ma colpire l’organizzazione che le compiva per giungere alla sua completa disarticolazione”. Nello stesso tempo gli investigatori dovevano “conoscere il nemico per poterlo combattere”, assumendone anche le modalità operative, come quella di praticare una clandestinità simmetrica, “nel silenzio e nella riservatezza più assoluti”, formando un gruppo fortemente motivato, creativo quanto necessario per superare gli ostacoli burocratici più impensabili e capace di lavorare all’unisono con totale senso di responsabilità di ciascuno verso gli altri.

Uno dei problemi che gli uomini di Di Petrillo hanno dovuto affrontare è stato quello della “fuga di notizie” che in diverse occasioni ha messo in pericolo, se non addirittura compromesso l’operazione in corso. Secondo l’esperienza anche di chi scrive, ci fu alla fine degli anni 70 una situazione di totale inadeguatezza dei tradizionali rapporti fra le fonti e i giornalisti rispetto ai nuovi fenomeni di criminalità politica. Spesso da fonti diverse venivano passate delle informazioni come se riguardassero ordinarie indagini di cronaca nera. Ma i nuovi criminali avevano capacità di monitoraggio e di comprensione dell’attività delle forze di polizia molto superiori a quelle dei vecchi comuni. Ci volle del tempo perché si arrivasse a una consapevolezza da parte degli investigatori – e anche da parte dei giornalisti – sull’impatto che certe notizie e certi dettagli potevano avere sulle indagini in corso.

Fra le ricostruzioni più interessanti del libro, scritto in una prosa scarna e diretta, “fattuale” come si conviene a un investigatore, c’è l’episodio della collaborazione che il PCI nella persona di quello che allora veniva definito il “ministro dell’Interno ombra”, Ugo Pecchioli, offrì al comandante la disponibilità a infiltrare un militante del Partito nella Brigate rosse con l’intento di destabilizzarle: “Furono il sequestro di Aldo Moro… e l’omicidio del sindacalista Guido Rossa.. a sancire in modo ancora più netto il definitivo distacco delle Br dalla loro storica area ideologica di riferimento”.

Molto importante nel quadro della storia di quanto accadde nella “guerra silenziosa” di quegli anni è il racconto delle indagini sui santuari parigini del terrorismo rosso. Di Petrillo si astiene da qualunque ipotesi, per esempio sul centro linguistico Hyperion al centro di tante ricostruzioni giornalistiche, che non sia confortata da riscontri oggettivi di prova o testimonianza, mettendo tuttavia in luce quanto difficile era la possibilità di intervenire in un mondo nel quale una certa area intellettuale radicale si era assurta a paladina anche di assassini riconosciuti e condannati come Cesare Battisti.

Tanti sono gli spunti avvincenti nella narrazione della preparazione delle operazioni, nelle tecniche di pedinamento, nella fase della individuazione dei terroristi. La fortuna ogni tanto ha dato una mano, ma anche gli incontri fortuiti erano favoriti da una strategia che riusciva a intercettare inesorabilmente i movimenti degli “attenzionati”.

Dal punto di vista dell’efficienza dei servizi di sicurezza italiani accennato all’inizio, sono particolarmente interessanti le riflessioni dell’autore sullo sviluppo dei sistemi informatici nel corso dei dodici anni di lavoro della Sezione speciale di Roma.

I nuovi calcolatori sempre più potenti mettevano progressivamente a disposizione delle indagini una rapidità ed efficacia di elaborazione di dati che con i dossier cartacei era impensabile. In quel gruppo si realizzò la circostanza virtuosa qual è quella di tecnologie nascenti che si evolvono in diretta applicazione con lo scopo per il quale sono programmati.

E’ anche grazie a questa esperienza tecnologica che l’azione dell’antiterrorismo italiano mantiene la sua riconosciuta efficacia operativa.

 

 

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