Guardando un quadro dipinto nel Cinquecento, una Madonna velata di azzurro dallo sguardo assente di un grande maestro del medioevo, si perde un po’ per strada una grande verità dell’arte: la reale comprensione della bellezza di un’opera artistica risiede, per una certa percentuale, anche nella comprensione del contesto culturale che l’ha prodotta.
Riconoscere l’immagine rappresentata, apprezzare la composizione, le forme, i colori, ci fa a volte accontentare di una impressione di bellezza che non non è che una parte dell’esperienza estetica.
Con l’arte contemporanea il discorso è lo stesso. Con qualche differenza.
L’arte contemporanea, in tutte le sue forme, abbandona volutamente un linguaggio riconoscibile (sia la figuratività, l’utilizzo di tecniche tradizionali, come anche il linguaggio codificato della danza classica), per tendere contemporaneamente e convulsamente ad una rappresentazione maggiormente empatica, a trasmettere in maniera non didascalica emozioni, sentimenti e stati d’animo.
Il risultato è un senso di boo.
Questo senso di boo vale per la grande Collezione Maramotti di arte contemporanea, per le importanti opere appese a quelle bianche pareti, e vale per la coreografia di Hofesh Shechter ideata per i grandi spazi post industriali che ospitano la Collezione e andata in scena in questi giorni.
Ed in qualche modo la sintonia è perfetta, per quel senso di leggero disturbo che si prova davanti alle opere come seguendo i sei ballerini in abiti civili che con glaciale distacco danzano ma anche guidano gli sguardi e fisicamente gli spettatoti all’interno dei vari piani della Collezione, nelle sale, in diversi spazi performativi, sempre a cavallo tra una raggelante distanza e la ricerca di una vicinanza fisica e concettuale.
CODA – A site specific performance, realizzato in esclusiva e in prima assoluta alla Collezione Maramotti, funziona così. Si sente qualcosa. Si percepisce una necessità di comunicazione ma mancano gli strumenti per interpretare pienamente il discorso. Si sente, ma non si legge. E come lo stesso coreografo ammette, non esiste un racconto ma solo uno stato d’animo, un movimento di testa e di pancia che dal luogo si trasferisce alla performance di ballo.
Il senso di Boo ha un suo fascino, anzi è un linguaggio espressivo tout court, che in questi anni di iper comunicazione, sovra esposizione, ultra velocizzazione trova la sua spiegazione nella necessità di recuperare stati d’animo puri. Emozioni, percezioni primordiali, qualcosa prima della stessa interpretazione intellettuale. Come un artista figurativo propone grandi tele con campi cromatici così la danza di Hofesh Shechter propone suggestioni nelle quali affondare, senza ricercare significati, ma, in qualche modo, accettando e accogliendo le immagini e le azioni con le sensazioni ad esse collegati.
Difficile poi spiegare a parole cosa sia rimasto, cosa sia piaciuto, a spettacolo chiuso. Boo.
P.S. Che poi non è che intendo che fa tutto schifo: i ballerini son bravi e lo spettacolo suggestivo. Solo in effetti si finisce per non riuscire a dare un nome all’impressione ricevuta. E a qualcuno andrà bene così.