La legge introdotta in Russia che detta una stretta sui media “nasce dalla necessità urgente dettata da una guerra di informazione senza precedenti contro la Russia”, ha spiegato ai giornalisti il portavoce della presidenza russa, Dmitry Peskov. “La legge è stata approvata e deve essere applicata. L’ha votata il nostro Parlamento, ha spiegato Peskov. Lo riferisce la Tass.
(Ansa)
«Me ne sono andato». Alexey Kovalyov, ex cronista del Moscow Times e di Meduza, fa l’annuncio, molto laconico, su Twitter, e gli altri follower rispondono con faccine e manine che applaudono: un altro ce l’ha fatta. Non c’è bisogno di spiegare da dove se ne è andato e perché: quel lapidario “Uekhal” suona definitivo, un verbo che da più di un secolo simboleggia il dilemma dell’intellighenzia russa, restare o partire.
Stanno partendo in tanti, in questi giorni e queste ore, dando la caccia ai biglietti, a prezzi vertiginosi, per le ultime destinazioni dove ancora si vola senza sanzioni. Istanbul, Erevan, Tbilisi, Dubai: ogni decollo può essere l’ultimo, perché gli Airbus e Boeing russi sono sotto sanzioni, e buona parte della flotta è soltanto in affitto da compagnie occidentali. Come i “piroscafi dei filosofi” salpati esattamente cento anni fa, gli aerei sono pieni di intellettuali: storici, scrittori, designer, ma soprattutto giornalisti, che si avventurano nel nulla di un futuro sconosciuto, lasciandosi alle spalle un passato definitivamente chiuso.
Insieme a Twitter e Facebook, bloccati dal governo russo. Da ieri, la libertà di stampa in Russia non esiste più, in nessuna forma. Il giorno prima erano stati oscurati i siti di Meduza, Deutsche Welle, Bbc, Radio Liberty e altre testate in russo con sede e/o finanziamento estero, i cui giornalisti vengono portati al sicuro in Europa. In serata – mentre Emmanuel Macron faceva una telefonata di solidarietà negli uffici di Memorial, la ong che denunciava i crimini di Stalin, invasi dai poliziotti – Vladimir Putin ha firmato la legge che punisce con condanne che vanno dalle multe fino a 15 anni di carcere per la «diffusione di fake news sui militari».
Cioè, spiega Kovalyov dal suo esilio, «da oggi in Russia non si può chiamare la guerra in Ucraina una guerra, pena una punizione pesante». Ma ancora prima le autorità avevano staccano la spina alle ultime due antenne russe che, tra mille fatiche e compromessi, facevano ancora informazione libera. I giornalisti della televisione Dozhd piangono in diretta, prima di imbarcarsi anche loro verso la salvezza in Occidente.
Ma il colpo più pesante è la radio Eco di Mosca, una storia trentennale iniziata con la glasnost di Gorbaciov, la prima – e ultima, si scopre ora – emittente libera russa. La speranza di una sopravvivenza su YouTube, su web, sull’app, dura poche ore: la testata che aveva ospitato tutti, da Bill Clinton ad Alexey Navalny, viene annientata, insieme a un archivio che rappresentava trent’ anni di storia. Il direttore Alexey Venediktov dice alla Novaya Gazeta che se l’aspettava, che era inevitabile, «è in corso una guerra, e non siamo un danno collaterale».
Nel testo della sua intervista però la parola “guerra” viene sostituita da una parentesi con puntini, seguita dalla nota «una parola proibita dalle autorità russe». Un trucco che la stessa Eco di Mosca aveva cercato di utilizzare per difendersi dall’ira del governo, ma non è bastato: della guerra in Ucraina non si può dire nulla, nemmeno il nome. Visto dalle redazioni moscovite, Orwell appare un cronista di attualità, e la Novaya Gazeta – ultimo grande giornale indipendente ancora in vita, protetto non si sa per quanto dal Nobel per la pace del suo direttore Dmitry Muratov – decide di eliminare tutte le notizie sulla () (parola proibita dalle autorità russe), per sopravvivere.
Altre testate chiudono i battenti senza aspettare che arrivi il loro turno, altre scelgono di cancellare ogni riferimento all’Ucraina. I dissidenti si danno appuntamento su Telegram, la parola più gettonata nelle conversazioni è Vpn (Virtual private network, ndr), ma è un trucco che può servire solo per accedere ai server esteri.
Quelli russi non esistono più, e il blocco di Apple Store e Google Play fa temere che anche la sopravvivenza dei siti attraverso le app sia a rischio. La () (parola proibita dalle autorità russe) dell’informazione è stata persa, e il Cremlino ha reagito eliminando tutti gli spazi di libertà e dibattito. La protesta contro l’invasione sparisce insieme ai social occidentali (quelli russi sono controllati dal governo), e non importa se milioni di russi comuni hanno subito una dolorosa “morte digitale” su Facebook e Twitter, perdendo anni di foto, post e ricordi.
Altri si preparano a venire eliminati anche da YouTube e Instagram, come il popolarissimo videoblogger d’opposizione Yuri Dud. La Bbc riprende le trasmissioni radio su onde corte, come all’epoca sovietica, quando era un’arma strategica della lotta al comunismo che filtrava attraverso l’oscuramento del Kgb. I giornalisti emigrati ipotizzano forme di “samizdat” su Telegram o sperano che i loro lettori riusciranno a collegarsi ai loro siti esteri aggirando i blocchi russi. Ma intanto fare informazione diventa non più difficile o pericoloso, comincia a essere quasi impossibile.
Anna Zafesova per “la Stampa”