Da New Delhi a Bologna rimbalza la stessa angosciante immagine, così diverse eppure così simili tra loro, di un uomo che si dà fuoco per disperazione. L’una affonda le radici nella protesta secolare e collettiva del popolo tibetano contro l’oppressione cinese, l’altra in quella tutta contingente e personale contro il quartier generale dell’esattoria italiana, l’Agenzia delle entrate. In un crescendo di tensione verso lo Stato e i suoi epigoni vessatori che sta raggiugendo livelli di guardia. La domanda epocale che è legittimo porsi è infatti la seguente e attiene le dinamiche dialettiche che legano etica e giurisprundeza, filosofia e religione, economia e psicologia: è morale che il cittadino sopporti un tale livello di tasse e balzelli per ripianare gli enormi buchi sostanzialmente scavati dalla macchina politico-amministrativa pagata dagli stessi perché il sistema avesse funzionato?
E’ una domanda a cui, confessiamo, non abbiamo risposta (sarebbe presuntuoso il contrario) ma che a livello inconscio attraversa tutto il corpo sociale come risulta evidente dai sempre più numerosi fatti di cronaca. Ma il tiro delle questioni inevase si allarga ulteriormente e non è solo un facile slogan da spendere nei rituali e insulsi salotti televisivi: è giusto che a svenarsi siano sempre gli stessi, sostanzialmente per mantenere privilegi e interessi di un Parlamento oggi irricevibile, di una baronìa di manager e super tali a capo delle aziende di Stato, di una burocrazia quasi immutata dai secoli post-risorgimentali ad oggi?
Intanto dalla copertina del Time il ghigno sonnecchioso e muto del premier Monti ci scruta e sua volta ci interroga: il Paese è pronto al gorgo vieppiù tortuoso di dazi e gabelle in cui le attuali generazioni di contribuenti dovranno sprofondare speranze e qualità della vita per ridare dignità alle future dopo che le passate (quelle di Monti & company per intenderci) hanno rosicchiato anche il torsolo della Repubblica fondata sulle tasse? Il bocconiano sguinzaglia le Fornero e i Catricalà di turno (un nome che sarebbe piaciuto al futurista Palazzeschi) a diffondere il verbo tecnico su pensioni e lavoro spesso palesando la loro distanza dai problemi e dagli accadimenti reali dei luoghi in cui si suda e soffre.
E a Reggio? Il perenne lamento romano del sindaco-presidente Graziano Delrio stride con il crescendo di gabelle che egli impone ai suoi sudditi. Ma c’è soprattutto il macigno Iren che pende come spada di Damocle sulla credibilità dei sindaci che vi partecipano. I costi doganali dei servizi irenici non sono quasi più sostenibili dal grosso della popolazione di pensionati e cassintegrati. Senza tornare sulla questione, pur gravissima, dell’esosità delle bollette e degli emolumenti faraonici dei vertici aziendali, il 95% dei reggiani (percentuale più alta a livello nazionale) che si è recato alle referendarie urne di giugno, una carica di 250mila e 584 persone, ha cancellato la quota idrica di remunerazione del capitale investito. Calcolata del quasi 12% per il 2012. Per la Corte Costituzionale la “normativa residua è immediatamente applicabile” e “non presenta elementi di contradditorietà”. Qualsiasi primo cittadino libero dagli asfissianti giochi che regolano gli equilibri di potere, passerebbe casa per casa a spiegare ai suoi amministrati come risparmiare in materia di legge. Ma nessuno bussa alla porta; piuttosto si continua a violare la sacralità domestica passando dal tubo catodico a blaterare frottole con improponibili facce.
Può sembrare irriverente o fors’anche dissacrante ma nemmeno più l’evangelico “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” taglia la testa al toro delle questioni in oggetto. Le residue, divine fiammelle di dignità e giustizia che si celano nei tartassati, stanno alimentando il sacro fuoco della confusione tra ciò che è dovuto e ciò che è letteralmente rubato