Firenze – Pubblichiamo l’intervento del magistrato Beniamino Deidda, già Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze al convegno “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione – rileggendo Alessandro Margara”, che si è svolto nei giorni scorsi nelle sedi del Consiglio Regionale della Toscana.
Ho voluto seguire anch’io il suggerimento proposto dal programma di questo convegno e mi sono messo nei giorni scorsi a rileggere Margara. E anche questa volta, come sempre mi succede ogni volta che sfoglio le pagine di Sandro, è accaduto che la lettura ha acquistato un sapore nuovo, quasi fosse una prima lettura. Come se il tempo che passa conferisse alle intuizioni e alle osservazioni di Margara un nuovo smalto, una nuova forza e un significato nuovo, adatto ai tempi che viviamo. Certo non posso dire che le vicende di Sandro e le posizioni da lui assunte in tanti anni di lavoro mi siano nuove. Ci siamo frequentati per 50 anni, eppure mi pare che, anche ora che non c’è più, continui a parlare e a dir cose nuove.
Non dirò delle tante cose che Sandro Margara ha elaborato sulla pena, sul 41 bis, sul recupero dei condannati, sul carcere e sulla droga. Ci sono troppi più esperti di me che in questi due giorni ne parleranno magistralmente. Se mi capiterà di accennare a questi temi sarà solo un pretesto per parlare di Sandro.
La mia amicizia con Margara è cominciata quando i magistrati e l’ufficio della sorveglianza non esistevano. Infatti Sandro per molti lustri si è occupato di altro ed è una parte importante della sua vita che di solito non viene ricordata anche perché da allora è passato molto tempo. Proverò perciò a dire qualcosa anche di quel periodo. Lo conobbi nel 1965, io stavo in Pretura a Firenze e Sandro era arrivato in Tribunale come giudice, dopo una permanenza di qualche anno al Tribunale di Ravenna. A Ravenna fu messo a fare il giudice istruttore.
Vigeva allora il processo inquisitorio e il giudice istruttore nelle istruttorie formali si incaricava di fare le indagini sui delitti che gli venivano assegnati. Indagini che poco avevano a che fare con l’esecuzione della pena e il mondo dei carcerati. Eppure anche in quegli anni il carcere incuriosiva Margara. Lui stesso racconta: “Se ricerco tra i primi ricordi della galera, trovo un detenuto sul letto di contenzione, nel carcere di Ravenna… Ricordo come si chiamava, lo rivedo allampanato, disteso su quell’attrezzo che veniva chiamato “la balilla”: un uomo, un crocifisso plebeo (l’iconografia dei crocifissi dà generalmente sul signorile) che viveva la sua passione con un’aria di sfida sarcastica, rifiutando la soddisfazione della sua sofferenza a chi l’aveva messo in quelle condizioni”. Sandro allora aveva poco più di trent’anni, ma c’è già tutto l’interesse e la passione per il carcere; o meglio, per gli uomini che popolano il carcere, la stessa passione che porterà con sé per tutta la vita.
In quegli anni il mondo della giustizia era in ebollizione e Sandro non era il tipo che potesse stare a guardare. Voglio ricordare che allora noi magistrati applicavamo i codici fascisti del 1930, ai quali la Corte Costituzionale non aveva ancora inferto i tanti colpi che avremmo visto nei lustri successivi. Ma proprio a metà degli anni ’60 era nata Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dell’Associazione Nazionale Magistrati, i cui aderenti non erano molto popolari tra i capi degli uffici e tra i colleghi più attaccati alle tradizioni. Sandro non partecipò da subito alle riunioni di MD.
Preferiva starsene tutto il giorno nel Tribunale di piazza San Firenze dove la sua simpatia umana gli rendeva facili i rapporti con i colleghi e il personale. Già allora Sandro era in possesso di un’ironia finissima, capace di cogliere il ridicolo di cose e persone senza urtarne la suscettibilità, un’ironia affettuosa e complice. Si portava appresso in quegli anni una naturale allegria che, insieme all’acutezza delle sue osservazioni, lo facevano apprezzare anche da chi era lontanissimo dalle sue idee.
Intanto si dedicava al suo lavoro con un approccio che già in quegli anni veniva definito garantista. Dentro un codice fascista che di garanzie ne prevedeva poche, Sandro si ricavava uno spazio tutto sostenuto dalle aperture della Costituzione. Il giudice istruttore, come lo faceva Sandro, somigliava più ad un giudice che ad un inquisitore. Era il risultato della sua attenzione alle garanzie degli imputati, come avremmo capito meglio nei decenni successivi.
Tutto questo era in straordinaria sintonia con quello che andava elaborando MD, che pure Sandro non frequentava ancora. Credo che da questa frequentazione lo trattenesse una certa fama di estremismo che MD si portava dietro, specie in Toscana. Una convinzione non del tutto gratuita, dal momento che nelle nostre riunioni della sezione toscana c’erano personaggi come Marco Ramat, Salvatore Senese, Luigi Ferraioli, Vincenzo Accattatis, Pino Borrè, che talvolta da La Spezia veniva fino a Pisa, Pierluigi Onorato, Gianfranco Viglietta, Silvio Bozzi e altri che hanno fatto la storia della giurisdizione costituzionalmente avanzata di questo paese. Tuttavia, pur non iscritto ancora ad MD, Sandro si era rapidamente conquistato un’autorevolezza che gli veniva da una pratica giudiziaria aperta, rigorosamente segnata dai principi costituzionali.
Verso la fine degli anni ’60, non ancora quarantenne, Sandro era ritenuto uno dei giudici più bravi ed influenti del Tribunale fiorentino, tanto che veniva massicciamente votato per il Consiglio giudiziario della Toscana anche da colleghi di diverse correnti, unico magistrato, per così dire, ‘di sinistra’ in un Consiglio giudiziario nel quale figuravano colleghi quasi tutti appartenenti alla corrente di MI.
Questo apprezzamento per Sandro da parte dei colleghi che simpatizzavano per altre correnti della magistratura non deve stupire, perché ci permette di cogliere un tratto fondamentale della sua personalità. Sandro era, vorrei dire naturalmente e istintivamente, libero dalle ideologie. Sapeva considerare i fatti e i problemi per quello che erano, guidato solo dal rispetto della verità e del buon senso. Per questo era affidabile e ispirava rispetto.
Qualche tempo dopo finalmente Sandro cominciò a partecipare assiduamente alle nostre riunioni di MD e nessuno se ne meravigliò: tutti lo ritenevamo già a pieno titolo uno di noi. Ma la sua partecipazione alla vita della corrente fu atipica: fedeltà alle ragioni di fondo di MD, una militanza attiva e impegnata, ma nessuna carica o impegno esterno per la corrente. Non aveva tempo e quello che aveva era speso, da un lato, nelle impegnative istruttorie formali dei processi che gli venivano assegnati e, dall’altro lato, in un’altra funzione che timidamente in quegli anni si andava affiancando a quella tipica del Giudice Istruttore: vigeva infatti la prassi che un giudice istruttore del Tribunale si occupasse dell’esecuzione delle pene e del carcere.
Sandro si rese conto subito che quel terreno era assai poco arato e soprattutto avvertì l’estrema importanza che in uno stato di diritto rivestiva il tema della pena e della sua esecuzione. Pochissimi magistrati in Italia, per quel che si sapeva, si occupavano di questi temi, Sandro cominciò a lavorarci passando da una iniziativa all’altra. Furono anni di presenza attiva nel carcere e di attente elaborazioni sul tema della pena. In sostanza Sandro si stava inventando un mestiere del tutto nuovo, quello del magistrato di sorveglianza.
Quando finalmente la legge di riforma penitenziaria istituì la sorveglianza, Sandro Margara era già molti passi avanti. Comincia con l’istituzione dei Tribunali di sorveglianza un periodo di straordinaria elaborazione sui temi attinenti al carcere e all’esecuzione delle pene che vede Sandro in prima linea, prima a Bologna e poi a Firenze, dove sarà presidente dei rispettivi tribunali di sorveglianza, e infine a Roma dove gli verrà affidato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.
Dopo pochi mesi di permanenza romana aveva già buttato all’aria il vecchiume che si era accumulato al dipartimento in materia di esecuzione. Uno così al ministero non poteva durare. E infatti il Ministro Diliberto lo licenziò in tronco, a riprova del fatto che per essere illuminati non basta essere di sinistra. In quei giorni si apriva il concorso per il posto di presidente della corte di Appello di Firenze, la carica più alta della magistratura in Toscana.
Insistetti in ogni modo perché presentasse la domanda, lo subissai di telefonate, andai a trovarlo a casa per convincerlo. Mi guardava con quel suo sorriso ironico come si guarda uno che non è completamente in sè e naturalmente non presentò la domanda. Al suo ritorno a Firenze andò a fare ciò che sapeva fare meglio di ogni altra cosa, il semplice giudice di sorveglianza. E da allora la sua voce, le sue ordinanze, i suoi scritti sull’esecuzione e sul carcere acquistarono un’autorevolezza che nessun altro poi ha più avuto.
Ma ho promesso che non parlerò dei temi relativi all’esecuzione delle pene. Vorrei però dimostrare come vi sia una straordinaria continuità di posizioni tra il Margara giudice istruttore nei primi suoi 15 anni in Magistratura e il Margara della sorveglianza e perfino il Margara direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La ragione di questa continuità sta in una visione straordinariamente lucida del rapporto tra leggi e Costituzione e del rapporto tra la legge e la realtà a cui le norme devono essere applicate. E’ in questa complessa rete di rapporti che per Margara trovano la loro esatta collocazione gli uomini, specie quelli più disgraziati e meno eguali.
In questa cornice la prima intuizione di Sandro fu che occorreva affermare con decisione che i magistrati di sorveglianza non erano magistrati di serie B. E fino ad allora c’erano stati molti buoni motivi per crederlo. I magistrati erano tenuti sull’uscio dalla direzione del carcere, possibilmente con i piedi fuori, e non si accettava che mettessero il naso nella realtà del carcere. Si accettava il controllo giurisdizionale previsto per legge, inteso nel senso più formale possibile, ma che fosse chiaro che l’amministrazione del carcere aveva mano libera, anche quando dalle sue decisioni poteva derivare una lesione dei diritti dei detenuti. Sandro cominciò invece da subito a metter bocca, aiutato dalla straordinaria conoscenza delle norme dell’ordinamento penitenziario e dei meccanismi del carcere. La sua popolarità tra i detenuti, già enorme in quegli anni lontani, faceva il resto e i vari direttori del carcere capivano che non sarebbe stato saggio uno scontro frontale con un giudice di quel calibro.
La seconda intuizione di Sandro ha segnato tutta la sua carriera di magistrato e si può riassumere in una proposizione semplice a dirsi: applicare la Costituzione nel carcere, da dove fino agli anni ’70 era stata costantemente tenuta fuori. Se si leggono le ordinanze di Sandro, tanti tasselli preziosi di una costruzione straordinaria, in ciascuna si troverà un fondamentale riferimento alla stella polare della Costituzione.
Si può dire che ciò che ha dato immensa forza alle posizioni di Sandro è stata non solo la sua visione del carcere, certamente avanzata, ma soprattutto la sua ostinata battaglia per la legalità costituzionale dentro il carcere. A questa battaglia Sandro non ha mai rinunziato neppure quando si è trattato di estenderla al carcere speciale o ai condannati all’ergastolo, due categorie per le quali entra in gioco nell’opinione pubblica (ma anche tra gli addetti ai lavori) il ricatto emotivo che viene dalla pericolosità di chi delinque o dall’efferatezza dei delitti commessi.
La posizione di Sandro su questo punto era cristallina: lo Stato non può opporre la sua violenza alla violenza di chi delinque. Si legge in Memoria di trent’anni di galera: “… la violenza dell’istituzione non rende innocenti i colpevoli che ospita (anche se essi si sentono vittime, e lo sono soggettivamente e sovente anche oggettivamente). Ma la violenza che hanno espresso con i loro delitti…non giustifica mai la violenza della comunità, dello Stato, che non dovrebbe aggiungere alla forza necessaria per realizzare la reclusione alcun additivo di violenza gratuita, quando non compiaciuta”
La terza fondamentale intuizione di Sandro si può riassumere così: la rieducazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione è il cuore della pena, essa vale per tutti i condannati di qualsiasi specie, per gli ergastolani come per quelli assoggettati al 41 bis. Per ribadire questo principio Sandro ha scritto ordinanze e articoli memorabili per la passione e per la chiarezza, tanto che di lui spesso si è detto che è stato fondamentalmente il “giudice della rieducazione”. Certamente lo è stato, anzi la mia convinzione personale è che, prima di tutto, Sandro Margara sia stato il giudice dei diritti inviolabili dei carcerati, compreso, certo, anche il diritto incomprimibile alla rieducazione. Sulla finalità rieducativa di qualsiasi pena Sandro non aveva tentennamenti, nemmeno di fronte all’ergastolo ostativo. E ricavava implacabilmente dalla Costituzione il diritto di ogni condannato, anche dell’ergastolano, a pretendere di vedere riesaminato un punto ineludibile: se cioè la pena fino ad allora espiata avesse già conseguito il suo effetto rieducativo.
Da questi tre punti fermi Sandro faceva discendere corollari importantissimi: la legalità, come garanzia dei diritti della persona, doveva essere affiancata dalla flessibilità dell’intervento giudiziario nell’esecuzione della pena, come strumento essenziale per perseguire la rieducazione dei condannati, per restituirgli dignità e non togliere loro la speranza del reinserimento. Di qui il netto rifiuto degli automatismi nell’esecuzione delle pene. Su questo punto Sandro ebbe opposizioni e perfino scontri aspri con alcuni colleghi che pure stimava.
Quelli che più gli pesarono avvennero dentro MD, che per lui è stata sempre l’orizzonte nel quale potevano essere messe in fila le tappe di un carcere più umano. Anche dentro MD molti colleghi furono conquistati dai miti illusori di talune interpretazioni della certezza della pena, dalle logiche dell’emergenza, dalle leggi speciali e dalle velleità securitarie. Sandro se ne dispiacque, ma non arretrò di un centimetro dalle sue posizioni.
Vorrei anche ricordare che Sandro ha condotto per anni tante altre battaglie: quella contro la deriva securitaria che si è tradotta in leggi da lui considerate via via sempre più illiberali e quella contro la legislazione sulla tossicodipendenza. Osservava che le politiche securitarie colpiscono invariabilmente proprio le fasce più deboli della popolazione e che il diritto alla sicurezza “viene soddisfatto dall’arresto di più persone e dal placare, più che la paura, il cattivo umore della gente”. Ma non mi resta tempo per queste cose di cui spero altri parleranno.
Voglio concludere osservando che rileggere Margara non è un’operazione che riguardi il nostro passato o solo le cose che Sandro ha realizzato nella sua lunga vita. Riguarda invece il nostro futuro perché ci fornisce le chiavi di ciò che oggi possiamo fare. C’è un testo di Sandro, comparso sul n. 2/2009 di Questione Giustizia, scritto non per essere pubblicato, ma solo per annotare alcune riflessioni. Riletto oggi, è un testo profetico, quasi che Sandro, con dieci anni di anticipo, intuisse la deriva politica e giuridica e che oggi viviamo.
I temi di questo scritto sono le leggi ingiuste e razziste. Sandro per ragioni anagrafiche ha conosciuto Matteo Salvini, ma per fortuna gli è stata risparmiata l’odierna versione del leghismo. E tuttavia nel 2009 scriveva: “Ci sono certe dichiarazioni politiche indiscutibilmente razziste. Non occorre un particolare sforzo per ricercare dichiarazioni… di rappresentanti politici che, con la terminologia classica del razzismo e spesso del più rozzo ed esplicito, hanno dichiarato le loro intenzioni: cacciare, perseguire gli immigrati arrivati nel nostro paese, impedire la loro integrazione, sbarrare le frontiere il più efficacemente possibile. Se questa è la scelta politica esplicita, le leggi che l’attueranno non potranno che essere discriminatorie. E ancora: “Una caratteristica del razzismo è la quantità delle giustificazioni che è capace di darsi e la condivisione delle stesse da parte delle comunità. Ma il razzismo configura una situazione oggettiva nella quale il senso di umanità si degrada perché afferma la superiorità del cittadino rispetto allo straniero.. e la convinzione che il territorio è nostro, sono nostre le case, il lavoro, i servizi, i diritti, il futuro”.
Certo Sandro non poteva immaginare che la politica sciagurata del nostro Governo facesse morire annegati o tenesse sequestrati per giorni su una nave decine di poveri disgraziati dalla pelle nera. Perché sempre, anche di fronte alle politiche più ingiuste, la sua intelligenza cercava soluzioni generose ed efficaci, senza attardarsi a immaginare il peggio. Negli ultimi anni è stato incessante il suo appello ad una politica più umana: dava suggerimenti, indicava soluzioni e soprattutto additava la via della saggezza costituzionale, non solo per il carcere e i detenuti, ma per tutti i disgraziati, gli emarginati e i diversi.
E da ultimo ha lasciato scritto: “Dunque: vogliamo non cogliere le possibilità che si trovano nelle vite sbagliate, ma che possono avere ancora un percorso? Vogliamo fermare il responsabile al suo delitto, sotterrare i suoi talenti, i nostri talenti, dati a noi per fare rendere ancora i suoi? Possiamo farlo, possiamo optare per una società punitiva, …. che vuole mietere dove non semina, che vuole un risultato senza dare nulla di sé. Ma la società a cui pensiamo, che noi vorremmo per noi… non dovrebbe essere una società educativa, che spende i propri talenti e li spende anche per fare fruttare quelli di tutti? Questa società partecipa al dolore delle vittime, si fa carico di esse, ma sa che non può ignorare e dimenticare i colpevoli; sa, in particolare, che farsi carico delle vittime è qualcosa di più e di diverso e di più responsabile che punire più duramente e ciecamente i colpevoli.”
Foto: Alessandro Margara