Il giornalismo del mondo che verrà dopo le grandi crisi

di Piero Meucci

Firenze –  E’ uscito il nuovo fascicolo della rivista Testimonianze, numero doppio (532-533) dal titolo “Antropologia di un mondo in cambiamento”. Il volume contiene una riflessione a più voci sui cambiamenti in atto nel mondo globale partendo dagli effetti (in ambito psicologico, sociale, economico, educativo) della crisi provocata dalla pandemia. Pubblichiamo l’articolo del direttore di StampToscana Piero Meucci. 

Il giornalismo propriamente inteso, cioè quello codificato da leggi professionali e riconoscibile per la qualità e la affidabilità delle informazioni, ha in qualche modo beneficiato di circostanze favorevoli nei mesi di lockdown, quando quasi tutte le attività umane si sono fermate. L’assedio del coronavirus ha favorito l’accendersi di inattesi fasci di luce in una notte finora angosciosa, senza luna né stelle.

Il discorso riguarda la natura della professione, i contenuti che elabora, non il canale utilizzato. Perciò, probabilmente rimane sempre valida la previsione di Philip Meyer, guru dell’editoria americana, che l’ultimo giornale di carta sarà venduto in edicola fra poco più di decenni, nel 2043, anche se è molto rischioso scommettere sul futuro in un settore che sta attraversando un soffertissimo periodo di transizione.

Per esempio non ha avuto ragione il pessimismo, per la verità molto cauto, dell’editore del New York Times Arthur Sulzerberg, che nel 2007 affermò di non sapere se cinque anni dopo il suo giornale sarebbe ancora stato in edicola. Oggi il NYT è fra le grandi aziende della storia del giornalismo che hanno superato la crisi.

I dati dell’ADS, l’agenzia che monitorizza la diffusione della stampa non confortano le attese basate sul fatto che le edicole facessero parte del “mondo rimasto aperto”. I numeri parlano a marzo di flessioni sulla diffusione mediamente assai pesanti che aggravano un trend costantemente in calo: a marzo solo Il Fatto Quotidiano cresce del 14,80% mentre su febbraio 2020 il Corriere della Sera perde il 6,7%, Repubblica il 9,1% e la Stampa il 14,9%. Ad aprile ci sono stati aumenti ma poco significativi se non si mantengono costanti.

L’analisi deve dunque lasciare i quotidiani tradizionali al loro destino e soffermarsi sull’altissimo consumo di informazione televisiva e sul web di persone che hanno passato le giornate al computer: due persone su tre dichiarano ai sondaggisti di essersi informate più spesso rispetto a quanto facevano prima del Coronavirus.

Questa crescita, tuttavia, non si è tradotta in un aumento degli introiti pubblicitari. Molti investitori hanno congelato gli acquisti pubblicitari a causa delle sopravvenuta difficoltà economiche e in base a considerazione sulla tutela del proprio marchio.

Più che sulla profittabilità del singolo canale (o medium) gli elementi positivi riguardano quindi il contenuto e la qualità delle informazioni. Per 100 giorni la gente è andata alla ricerca di notizie sulle  causa, la natura, le conseguenze della pandemia, sui comportamenti da tenere per ridurre i rischi e sulle misure prese dalle autorità politiche e amministrative per alleviare i disagi e ridurre i danni morali e materiali.

E’ vero che attraverso le reti social sono passate innumerevoli parole del tutto prive di fondamento scientifico o notizie volutamente bugiarde anche solo per omissione di particolari e integrazioni che concorrono alla formazione di una sia pure approssimativa oggettività.

Di fronte allo sforzo collettivo di grandi agenzie internazionali come l’Oms e alla presenza di scienziati onesti e competenti, si può ipotizzare – senza apparire troppo ottimisti – che vi sia stata una sorta di esercitazione critica nel cercare e nel filtrare ciò che si presenta con i crismi della verità scientifica, perché basata su evidenza empirica e ipotesi confermate dalle ricerche in laboratorio. Tutto sommato si è fatto uno sforzo maggiore per capire come stanno le cose. Del resto non può stupire che ciò avvenga quando è in gioco la pelle.

Su questo aspetto è in corso un’ampia riflessione da parte di esperti e sociologi. Un lettore un po’ più critico e comunque più attento a quello che legge, o che vede o che sente dire, è un punto di partenza importante per analizzare gli effetti che la pandemia ha provocato nel settore dell’informazione anche per tentare di dare una risposta all’interrogativo proposto dal direttore di Testimonianze.

Come sarà il mondo post – Covid? Che impatto ha avuto il virus sul modo nel quale i cittadini si approvvigionano di quella materia prima sensibile e indispensabile costituita dalle notizie?

Proviamoci a esercitare l’arte degli analisti del futuro (meglio che futurologi che suona come astrologi) delineando due scenari: uno costruito sull’ipotesi peggiore (che piace molto ai nemici della stampa libera) e uno sull’ipotesi che l’informazione indipendente è al servizio di una democrazia degna di questo nome e che riuscirà a riconquistare il suo ruolo.

Il primo scenario si presenta con il volto del primo giornalista robot messo in campo dall’agenzia Xinhua (Nuova Cina, la principale agenzia di stampa cinese).

In Giappone ricercatori dell’Università di Tokio hanno sviluppato un robot in grado di spostarsi, fare interviste e prendere foto. Insomma una macchina antropomorfa che potrebbe essere in grado di sostituire gli inviati nelle zone a rischio. Il vantaggio sarebbe quello di sottrarre ai rischi i reporter (sono 49 i giornalisti uccisi nel mondo nel 2019, il dato più basso degli ultimi 16 anni,  riferisce il rapporto annuale della Ong Reporter senza frontiere, un’agenzia di monitoraggio indipendente).

Come i loro concorrenti asiatici, Microsoft, Google e Apple, lavorano sull’ipotesi che un robot sia in grado di svolgere alcune mansioni di un giornalista in carne e ossa, fra le quali una primaria come la scelta delle notizie. Perciò tendono a sostituire con macchine elettroniche le costose équipe editoriali del  portale news.

Per alcune testate, come il Los Angeles Times i robot possono scrivere articoli come quello su un terremoto pubblicato alla fine di marzo, come riporta ecsdigital.com. Quakebot, il robot giornalista è  si muove grazie a un algoritmo che si basa su dati trasmessi dal US Geological Survey che poi inserisce in un testo già formattato per il giornale. Grazie a Quakebot il quotidiano è riuscito a dare l’informazione in tempi record.

Si tratta di una applicazione molto sofisticata dell’intelligenza artificiale. In teoria un algoritmo è perfettamente in grado di scegliere le notizie e di inserirle in un contesto che proviene dall’enorme accumulazioni di dati da parte dei “draghi digitali”, le Big Tech che il lockdown e il distanziamento hanno ulteriormente ingrassato di soldi e, soprattutto di dati, con il mondo intero che ha usato zoom, skype etc. per comunicare e i social media per scambiarsi informazioni. Tutta roba finita archiviata nella pancia dei draghi nella quale nessuno o quasi può mettere il naso.

Il Nasdaq, il listino americano delle società più innovative ha recuperato tutte le perdite dall’inizio del 2020 e continua a crescere più delle altre piazze azionarie, grazie appunto alle ‘Faang’, i big di Internet, e cioè Facebook, Amazon, Apple, Netlifix e Google. Facebook, per esempio,  ha potuto contare un rialzo del 10% degli utenti e del 15% degli utili.  Anche Alphabet, la holding di Google, il gigante dei motori di ricerca, ha messo a segno una crescita delle entrate del 13% nel primo trimestre a 41,2 miliardi di dollari. I profitti trimestrali di Microsoft sono aumentati del 22% e hanno superato i dieci miliardi.

Saranno dunque l’intelligenza artificiale e i big data i produttori dell’informazione del futuro? In questo modo sarebbe risolto definitivamente il problema di tutti i poteri, in qualunque forma si presentino. Il giornalismo non è infatti solo scelta e comparazione di notizie basata sui calcoli delle propensioni, le curiosità e gli interessi degli utenti.

Si realizzerebbe così la più classica delle definizioni dell’anti-giornalismo: si pubblicano solo le notizie che i lettori, le cui scelte vengono attentamente monitorate attraverso i motori di ricerca, non solo si aspettano, ma che corrispondano esattamente alle loro convinzioni e opinioni. Il risultato sarebbe omogeneizzare il giornalismo alla dinamica delle chat dei social, dove ognuno ascolta solo quello che vuole sentire. Senza dimenticare la facilità con la quale le notizie potrebbero essere addomesticate e manipolate: basta un ritocco al programma al momento giusto.

I Big digitali non solo rapinano ogni giorno tutto il lavoro intellettuale e giornalistico che viene prodotto nel mondo, ma lo usano in modo tale che potranno rendere superflui gli operatori dell’informazione, costosi e poco corruttibili (se rispettano le regole del proprio mestiere). Diventano così i miglior alleati di tutti coloro, soprattutto regimi autoritari o anche governi populisti tendenzialmente tali, che temono il lavoro di intelletti onesti e disinteressati. L’ultima classifica redatta nel 2020 sempre da Reporter senza frontiere ha segnalato una dozzina di paesi asiatici (tra cui Bangladesh, Cina, Pakistan, Myanmar, Singapore e India) nei quali la libertà di stampa è in declino.

L’Italia non è messa bene soprattutto per i casi di aggressione e intimidazione, con una ventina i giornalisti costretti a vivere sotto scorta perché minacciati di morte.

Fortuna ha voluto che il lavoro svolto dai robot si sia rivelato inaffidabile. Tanto inaffidabile che Apple ha deciso di tornare all’intelligenza umana. Del resto appare evidente che i fatti sono la materia prima di un lavoro che richiede conoscenza, capacità di analisi e, soprattutto, assenza di riferimenti all’interesse soggettivo in qualunque forma si presenti.

Tuttavia, la minaccia di una inarrestabile  “automazione” dell’informazione è reale così come è urgente un’azione concertata dei governi e delle opinioni pubbliche per porre fine al saccheggio senza regole né valorizzazione economica del lavoro dei giornalisti da parte dei padroni della Sylicon Valley.

E, soprattutto, occorre regolamentare il drenaggio senza limiti della pubblicità. Google e Facebook da soli cannibalizzano fino all’80% dei proventi pubblicitari lasciando agli editori multimediali solo le briciole. Un monopolio contro il quale dovrebbero scattare le misure anti posizioni dominanti del commissario alla concorrenza dell’Unione europea, la liberaldemocratica danese Margarethe Vestager.

C’è dunque lo spazio per prefigurare uno scenario più positivo, partendo dalle premesse poste all’inizio. Se si riesce a consolidare una forte domanda di buon giornalismo, si può ritenere che le società editoriali, le libere organizzazioni di giornalisti possano attivare il flusso di risorse per le retribuzioni dei redattori e gli investimenti nelle attività di ricerca delle notizie, di inchiesta e di verifica di quanto viene raccolto o intercettato.

Per il futuro, i media più forti saranno quelli in grado di mantenere la propria rilevanza e capacità di soddisfare i bisogni di informazione del pubblico e di garantirla un contesto di qualità e sicurezza.

Com’è chiaro a tutti, l’informazione di qualità richiede costi elevati e solo il sostegno da una parte dei lettori e, dall’altra, quello di nuovi modelli di intervento pubblico possono consentire di invertire la marcia e riavviare un processo virtuoso.

Il parlamento dovrebbe innanzitutto riaffermare in forma solenne che la buona informazione deve essere tutelata e promossa perché è un servizio pubblico ed è fondamentale per l’esercizio di una cittadinanza attiva.

Il richiamo del superiore valore dell’informazione e della libertà di opinione secondo il dettato costituzionale dovrebbe essere accompagnato da una serie di misure che vanno dalla rigorosa protezione dei copyright, allo stabilire tetti massimi per le raccolte pubblicitarie online da parte dei gruppi più grossi, alla regolamentazione dei contenziosi, salvaguardando i diritti delle persone chiamate in causa, ma anche tutelando di più il giornalista dalle querele temerarie e da tutti gli strumenti utilizzati per intimidirli e colpirne l’indipendenza.

La Corte Costituzionale ha rinviato al giungo 2021 la trattazione della questione di costituzionalità in relazione alle norme che puniscono con la detenzione i giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa. La pena detentiva è incompatibile con i principi di libertà di informazione così come più volte ribadito anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, hanno ribadito i rappresentati dell’Ordine. La Consulta ha con ciò sollecitato le Camere a legiferare sul tema, ed è questa l’occasione per un grande dibattito pubblico su come ridare alla professione giornalistica il ruolo costituzionale che le spetta.

Nel pacchetto delle proposte dovrebbe entrare anche l’istituzione di una fondazione con un’elevata dotazione annua guidata da personalità indipendenti nominate per la durata di tre dal Presidente della Repubblica. Tale fondazione dovrebbe essere incaricata di promuovere la qualità dell’informazione attraverso il finanziamento di progetti presentati dalle aziende giornalistiche di qualsiasi forma giuridica.

La combinazione di tutte queste misure dovrebbe garantire la ripresa di un mestiere che oggi viene sempre più associato all’ufficio stampa o comunque a una rappresentazione più o meno trasparente di interessi politici, economici o commerciali.

Lo scopo è ripristinare reputazione e autorevolezza agli operatori dell’informazione di fronte ai cittadini. Solo un impegno forte e convinto da parte delle istituzioni democratiche e unito a uno sforzo senza precedenti da parte delle categoria può ottenere questo obiettivo. E’ una delle riforme fondamentali per la rinascita del Paese dopo la pandemia.

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