Il futuro di Gaza: anche l’Inferno fa gola ai fanatici

La destra martella il governo: nessuno stato ai palestinesi

Il 12 settembre 2005 Israele completava il disimpegno dalla Striscia di Gaza, gli ultimi ad uscire chiudendo il cancello furono i soldati dell’IDF. I primi a rientrare saranno ancora loro. Da allora c’è sempre qualcuno in Israele che tira fuori l’idea di riprendersi i 360 km² di terra “abbandonata”. Che man mano è diventata cumuli di macerie e praterie di cimiteri. Devastazione e catastrofe. Eppure, anche l’Inferno fa gola ai fanatici.

Gennaio 2024, a Gerusalemme si tiene una conferenza sul reinsediamento israeliano a Gaza, affollano il parterre i vertici della destra. Due mesi dopo un gruppo di attivisti nazionalisti fa breccia al valico di Erez, e instaurano un insediamento simbolico, prima che l’esercito gli tirasse le orecchie. A maggio a Sderot migliaia di persone hanno marciato fino alla collina del “belvedere” su Gaza. Domenica 20 ottobre centinaia di israeliani, tra cui esponenti politici della maggioranza del governo Netanyahu, hanno sfilato lungo il confine. Chiedevano di colonizzare l’enclave palestinese: “ogni centimetro da nord a sud”. Invocando apertamente la pulizia etnica. A dirigere il coro l’immancabile ministro israeliano Itamar Ben-Gvir: “Noi siamo i proprietari di questa terra”. Il successivo giovedì una nuova dimostrazione, partecipata da giovani. Che hanno tentato di superare la barriera di sicurezza. Nessuno però ha messo piede oltre la recinzione, grazie all’intervento dell’esercito. La richiesta dei manifestanti non cambia: “Ritorno a Gaza!”.

Opzione che Bibi comunque da mesi nega categoricamente: “Israele non ha intenzione di occupare permanentemente Gaza o di sfollare la sua popolazione. Israele sta combattendo i terroristi di Hamas, non la popolazione palestinese, e lo stiamo facendo nel pieno rispetto del diritto internazionale… Il nostro obiettivo è rimuovere i terroristi di Hamas da Gaza e liberare i nostri ostaggi. Una volta raggiunto questo obiettivo, Gaza potrà essere smilitarizzata e de-radicalizzata, creando così la possibilità di un futuro migliore sia per Israele che per i palestinesi”.

Il messaggio è chiaro: toglietevi dalla testa che torneremo a coltivare gerani a Gush Katif. Eppure, dentro il suo partito qualcuno si lascia scappare che il primo ministro aveva espresso sostegno al progetto del reinsediamento volontario dei palestinesi fuori da Gaza, ma l’ha tolto dall’agenda su pressioni degli Stati Uniti, e non solo. Comunque, “distribuire” milioni di gazawi in altri paesi non è una soluzione intelligente ma criminale. Non siamo nel ’48, se cerchiamo un parallelismo storico, eppure, il piano è caldeggiato dall’alto. Sponsor, ad esempio, il leader del movimento Sionismo Religioso e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.

Il quale due giorni fa si è messo a martellare il suo chiodo fisso: nessun stato ai palestinesi, introduzione di un sistema di autonomia locale limitato e privo di caratteristiche nazionali. Estendere la sovranità israeliana, creando altre città in Cisgiordania. Presenza permanente a Gaza, dove spera ardentemente di far risorgere le colonie. Additando ragioni di sicurezza strategica: “Dove non c’è presenza civile, non c’è presenza militare a lungo termine… viene a mancare la sicurezza e persiste una minaccia esistenziale per Israele”. Aborrire l’immaginaria soluzione a due stati. Esortando ad aprire la via al pieno controllo dal mare al Giordano, triste slogan abusato da troppi indistintamente. Che porta dritto alla rovina totale.

Della contrarietà ad uno stato palestinese è avvocato Netanyahu. Nel maggio 1994 intervenendo al parlamento accusò Rabin di “aver messo Gaza in ogni parte di Israele”. Sottolineando l’infausta possibilità “su chi avrebbe protetto dai razzi katyusha di Hamas i cittadini di Kiryat Gat e Ashkelon”. Non fu Fatah, come temeva. Tuttavia, a garantire l’incolumità dei residenti israeliani di quella regione di frontiera meridionale non è stato nemmeno lui nei suoi 17 anni al potere in Israele. Il longevo re Bibi ha finito per commettere errori madornali, si è contraddetto su molte questioni, inclusa appunto Gaza e Hamas. Ma la narrazione di Bibi è un costrutto politico, assuefante propaganda che non ammette ripensamenti, nemmeno per gli scandali. Basata tanto sulla linearità nella visione post-sionista quanto sull’elegia generata da vittimismo, populismo e sovranismo.

È qui che nasce la storia della carriera di questo controverso statista. Il 18 dicembre 2003 Ariel “Arik” Sharon è premier e Netanyahu ministro della Finanza. Sharon annuncia il piano di disimpegno unilaterale dei circa 9mila settlers israeliani e dell’esercito (a loro protezione) stanziati nel lembo di striscia palestinese. Il sentimento maggioritario nel paese, ma non nel Likud, è che sia giunta l’ora di sbarazzarsi del peso (e dei costi di sicurezza) di Gaza. Alla mossa di Sharon, che cavalca l’onda, Bibi decide di rispondere adottando la tattica di rimanere al governo il più a lungo possibile.

È in difficoltà. Prende tempo. Tesse la matassa della congiura di palazzo, rosicchiando tessera dopo tessera all’avversario. La trappola scatta con il referendum indetto all’interno del Likud, sul tema del ritiro da Gaza. La mozione di Netanyahu si impone con il 60,5%, una parte del Likud ha voltato le spalle al generale Arik, che non si ferma difronte alla ribellione scoppiata nel partito. E rilancia in modo inaspettato con una manovra di riposizionamento nell’arco della Knesset. Vira verso il centrosinistra fondando con successo Kadima. Mentre, Bibi consolida la poltrona da signore incontrastato della destra: “Per molti versi Sharon e io stavamo camminando sulla stessa corda tesa… Quello che seguì fu un anno turbolento in cui giocammo al gatto e al topo”, è l’ammissione sincera di Netanyahu. Perdere la battaglia di Gaza gli permetterà di vincere la guerra per il trono di Gerusalemme. Oggi il rischio è opposto: trionfare a Gaza e rimetterci la corona del “monarca”.

Alfredo De Girolamo Enrico Catassi

Foto: Benjamin Netanyahu

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