Il fascino misterioso dei grandi pesci “robotici” di Giampaolo Di Cocco

L’artista crea installazioni in metallo nel suo studio di Berlino

Lo chef Guido Mori nella sua Università della cucina italiana ha da poco presentato le opere di Giampaolo Di Cocco in mostra permanente all’interno del maestoso spazio di via Galliano a Firenze. “Atlantis III”, il titolo dell’installazione, è costituita da tre opere di grandi dimensioni, tre modelli di pesci, un marlin, un tonno e una manta, che dominano la generosa altezza del soffitto, e seguono, nella dialettica e nel tempo, la grande installazione “Acque Alte/Acque Basse” situata all’interno del parcheggio della Stazione di Santa Maria Novella, realizzata da Di Cocco nel 2018 per conto della Firenze Parcheggi, contenente dodici diversi tipi scultorei di pesci. Come si percepisce dalle installazioni fiorentine, le sue opere dialogano sempre con lo spazio intorno, si integrano in modo tale da risultare in equilibrio perfetto con l’ambiente.

Fiorentino, artista, architetto e scrittore, ha realizzato numerose installazioni in luoghi pubblici in Italia e nel mondo. Lo raggiungiamo nel suo studio di Berlino, per conoscere l’uomo e approfondire la sua attività artistica.

Giampaolo Di Cocco da dove nasce l’idea di rappresentare dei pesci?

“Il pesce per me è una creatura misteriosa ed elegante, si muove con grande proprietà nell’acqua, il suo elemento, e poi non parla, altro dato affascinante perché si trasmettono i pensieri, ci si guarda ma non si parla. Sarà forse per questo o per altri motivi, forse per la forma idrodinamica, che mi affascina sempre. Tutti i pesci mi affascinano”.

Come ha realizzato l’installazione presente presso l’Università della cucina italiana?

“Ho costruito i tre modelli nel mio studio di Berlin – Kunow utilizzando lamiere d’alluminio satinate per tonno e manta e acciaio zincato per il marlin, assemblate su di uno scheletro formato con piatto di alluminio 20x2mm e fissate con viti e rivetti e devo dire che sono piuttosto soddisfatto dai risultati. Guido ha provveduto al trasporto a Firenze per il tramite di una allegra ditta polacca ed anche al montaggio nel grande spazio della Università eseguito da Enrico con vera perizia. La collocazione negli ampi locali ha seguito la forma dello spazio per mettere i modelli in “colloquio” con gli elementi architettonici, ponendosi in prospettiva a formare sfondi misteriosi ed attraenti, così da rendere interessante e narrativa l’intera spazialità dei grandi locali”.

Perché usi il metallo tra tanti, tantissimi materiali?

“Il metallo si presta benissimo a rappresentare quello che in realtà è costituito di metallo, cioè navi e aerei. Poi lo uso anche per i grandi animali dato che ne interpreta la natura robotica, una natura appunto ambigua tra organico e meccanico”. 

Il suo linguaggio, le dimensioni monumentali. A cosa si ispira e qual è la sua ricerca?

“La ricerca è di tipo architettonico. Ho fatto architettura ma non composizione perché mi fa fatica stare piegato su un tavolo da disegno. Però mi è rimasto l’interesse per l’architettura che ho sviluppato però con modalità tutte mie.  Le dimensioni monumentali infatti sono date dal ricercare un rapporto tra l’architettura e gli oggetti che vi inserisco. Per trovare un rapporto con l’architettura ho bisogno di qualcosa che sia a dimensione architettonica. Da qui i grandi animali, le navi, gli aerei, come poi vedremo.

Come ha iniziato il suo percorso artistico?

“La mia ricerca è iniziata molto, molto tempo fa. Bisogna andare a epoche antidiluviane. Mio padre, che faceva il pittore dilettante, disegnatore di nudo, teneva a casa delle riunioni di artisti, diciamo gli intellettuali dell’epoca. Si prendeva il thè, qualche cioccolatino. Erano tempi molto poveri di soldi, però c’era molta volontà di vivere, molto piacere a scambiarsi le idee. Io stavo sotto il tavolino mentre i saggi prendevano il thè e ascoltavo i loro discorsi. Credo che da lì hanno iniziato a interessarmi l’architettura e l’arte, che poi ho portato avanti parallelamente privilegiando in fondo quest’ultima”.

Perché ha scelto Berlino come base della sua attività?

“Berlino è una città che mi ha sempre affascinato. Ci sono arrivato la prima volta nel 1984, prima che scoppiasse il caso Berlino. Sono arrivato lì con un mio amico tedesco Frank Dornseif e ho deciso che prima o poi ci sarei ritornato. Questo è avvenuto solo nel 1990, quando ho fatto la grande installazione alla Stazione dello Stadio Olimpico a Berlin Charlottenburg. Mi sono divertito molto a Berlino. Ho trovato delle cose inusuali, è una città straordinaria. Ora lo dicono tutti, quindi sembra che io ripeta quello che dicono gli altri, ma ho cominciato un po’ prima. Avevo già scritto un racconto per il giornalino del Liceo Dante che si intitolava “Cento giorni all’Equatore” e che si svolgeva proprio a Berlino. È una città che fino a poco tempo fa costava poco e così ho potuto permettermi di comprare casa, atelier e show rooms, tutto insieme, in un villaggio dalle parti di Berlino, in campagna, nell’ex Germania comunista. Sono molto felice lì dove ora lavoro, dove ho realizzato l’installazione per Guido. L’ho potuto pagare con i miei soldi, senza ricorrere a prestiti, a mutui, a un bel nulla. Oggi le cose sono cambiate, ma dieci anni fa quando l’ho fatto io era una cosa fattibile e questo aspetto mi ha aiutato a scegliere Berlino. L’altro fondamentale motivo è che a Berlino ci vive mia moglie. Mi sono sposato nel ’91, dopo l’installazione allo stadio olimpico e oggi mi aiuta nella mia attività artistica e mi sostiene anche fisicamente perché io nel frattempo sono invecchiato. Le sono molto grato”.

La scelta dei temi da cui nascono le opere da dove derivano? Mi fa qualche esempio?

“Come ti dicevo io lavoro con l’architettura, mi riferisco sempre a un contenitore architettonico, quindi necessariamente per confrontarmi con queste grandi dimensioni dovevo fare dei grandi animali, delle grandi navi. Esempi quanti ne vuoi. Al Neues Kunstforum di Colonia ho fatto un modello del Savoia Marchetti SM79, per conto mio una delle mie installazioni più belle. Il modello con la sua grande ala destra tagliava un ponte che era lì, e che per conto mio non stava bene in questo grande spazio del Neues Kunstforum. E il Savoia, passando, lo faceva fuori con l’ala. Naturalmente era una simulazione, lo “scontro” era ricostruito per frammenti con molta attenzione e molta cura. Sono stato molto contento di questa installazione. Ho portato questa mia tematica in giro per il mondo, in Danimarca, in Francia, in Sicilia, a New York. La Deutsche Bank mi ha commissionato una installazione permanente per il suo parco di Duisburg- Homberg, la Fondazone Il Giardino di Daniel Spoerri a Seggiano ha accolto due mie grandi installazioni.  Molti aerei e anche molte navi e sommergibili che hanno questa forma a pesce, quindi si trovano bene a galleggiare nello spazio. Lo spazio della architettura si presenta come statico, i miei oggetti intrusi suggeriscono il movimento e la dinamica: è il rapporto dialettico che si instaura tra i due elementi a costituire l’interesse del lavoro. Dicono di me che faccio aeroplanini. Evidentemente guardano l’oggetto che io faccio entrare nell’architettura e non guardano l’insieme che è oggetto + architettura. Questa è la lettura corretta del mio lavoro.”

A cosa sta lavorando adesso?

“Adesso lavoro a liberare gli spazi del mio studio da tutto il materiale che io ho portato da Ferrara dove era la mia ultima dimora italiana. Ora mi sono trasferito a Berlino e ho dovuto portare i materiali che provengono da un appartamento ferrarese di centotrenta metri quadri più un grande garage, attrezzato a laboratorio. Un tir di materiali che ho scaricato nel mio studio di Berlino. Per quanto grande ha cominciato a scricchiolare sotto questa invasione che ora sto cercando di sistemare e di distribuire, in parte ahimè di buttar via, in modo da poter recuperare l’uso dei miei spazi”.

Quali progetti per il futuro?

“Visto che ora sono berlinese, il progetto è quello di inserirmi in modo robusto nella dialettica culturale della città. C’è una libreria italiana, come sai sono anche scrittore, dove vorrei incominciare a presentare i miei libri. E vorrei cercare delle gallerie interessanti dove poter proporre i miei lavori, vorrei poter fare anche delle installazioni negli spazi urbani. È un lavoro pesante perché Berlino è molto frequentata dagli artisti quindi la concorrenza è feroce. Però mi butto nella mischia! Inserirsi nella sfera culturale di Berlino, significa trovare collaborazioni, amici, amiche e lavoro. Sto già dandomi da fare, non è che si presenta facile ma spero di farcela”.

C’è un sogno di un’opera o un progetto che vorrebbe veder realizzato?

“Il sogno ce l’ho! È un’utopia più che un sogno perché non so dove potrebbe trovare posto un’idea di questo genere. Io vorrei una valle tutta mia. Da qualche parte. Anche nel deserto. Purché ci possa fare quello che voglio. L’attrezzerei con grandi caverne naturali, grandi alberi, una serie di episodi primordiali, acqua, cascate, laghetti, abitazioni in tronchi di albero, in pietra nuda, frequentata da animali in parte veri, in parte miei, quelli fatti di metallo. Comporre quindi un ambiente per le persone che hanno voglia di avventurarvisi, di stare all’origine delle segrete cose e vedere che effetto fa. Ripeto è un’utopia”.

In foto Giampaolo Di Cocco

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