Il 31 dicembre scorso moriva Joseph Ratzinger, già papa Benedetto XVI dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013, quando rinunciò al ministero di Vescovo di Roma. Si vorrebbe qui riprendere alcuni punti forti di quel pontificato, per evitare qualsiasi “effetto immaginetta”, anche rinunciando a entrare nel circolo mediatico che si è avviato – forse troppo precipitosamente – con la pubblicazione di testi inediti, appunti, ricordi del papa defunto e di suoi collaboratori. Per questa ragione abbiamo pensato a un colloquio con qualcuno che ha lavorato per anni a Roma con il cardinale bavarese quando guidava la Congregazione per la dottrina della Fede.
Don Damiano Marzotto Caotorta, classe 1944, toscano di Fiesole, presbitero ambrosiano, studi al Pontificio Istituto Biblico e alla Gregoriana, insegnava nella sezione di Venegono della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale quando nel luglio 1982 si sentì proporre dal cardinale Carlo Maria Martini di presentarsi a un colloquio con il Prefetto nello storico Palazzo del Sant’Uffizio: lo stesso Ratzinger aveva chiesto all’arcivescovo di Milano di segnalargli un collaboratore… Cominciò così una “avventura”, personale oltre che intellettuale, durata 23 anni.
Don Damiano, che ricordo ha di quegli anni, del suo “principale”, del lavoro svolto?
Il cardinale Ratzinger era un uomo sempre in ricerca di una comprensione sempre più profonda del mistero di Dio, di cui non cessava di sondare le ricchezze. Ma non si trattava solo di un itinerario di carattere intellettuale, teorico, perché egli si gettava con lo stesso interesse in ogni relazione umana, in ogni incontro con l’altro, valorizzandone l’esperienza. Con lui ci si sentiva sempre a proprio agio, come con qualcuno che sta guardando avanti e ci fa partecipare al suo cammino. Colpiva il modo con cui conduceva le riunioni. Faceva cominciare a parlare i più giovani, ascoltava tutti con attenzione e poi riassumeva in termini sintetici e chiari i risultati, tenendo conto del contributo di ciascuno e indicando gli aspetti che restavano aperti. Ho avuto il dono di curare la traduzione in italiano di suoi testi in tedesco. Colpiva come egli non si ripetesse mai, ma il suo pensiero fosse sempre in evoluzione, anche se nel medesimo orizzonte prospettico. Quel suo continuo interrogarsi sull’esistenza e i suoi significati, insieme con una familiarità con la Scrittura e i Padri della Chiesa, gli suggerivano approcci sempre nuovi e affascinanti.
Il cardinale era un tipo schivo, non cercava di mettersi in mostra, credeva nella sostanza delle cose e delle parole e questo atteggiamento sobrio è stato talora interpretato come freddezza; in realtà era molto sensibile e attento all’altro. Questo si manifestava in particolare con le persone umili, povere, anziane, verso cui aveva una vera delicatezza e una grande pazienza. Un capitolo a parte è poi quello della preghiera. Nel palazzo del Sant’Uffizio vi era una piccola cappella dedicata a San Pio V. Una delle prime iniziative del cardinale fu quella di restaurarla. Là era il centro del nostro lavoro: l’eucaristia, la preghiera, il Dio vicino. L’orazione, il contatto con Dio era il respiro della sua anima, egli viveva abbandonato in Dio.
Ho prima nominato il gesuita-biblista-cardinale Martini, spesso considerato contrapposto a Ratzinger… Eppure le cronache ricordano che quando nel 2003 si celebrarono i 25 anni di pontificato, Giovanni Paolo II donò ai cardinali una preziosa edizione delle Lettere di Pietro curata da Martini con introduzione di Ratzinger…
Certamente erano due personalità dal profilo diverso, ma si stimavano reciprocamente e si confrontavano frequentemente con franchezza e rispetto. Lo documentano anche le testimonianze di entrambi, che apparvero in alcune pubblicazioni per i rispettivi anniversari. Io stesso ne sono stato testimone in quegli anni, perché il cardinal Martini era membro del dicastero e potevo leggere ogni volta il testo dei suoi interventi alla Sessione ordinaria.
Joseph Ratzinger fu fine teologo, partecipò al Concilio Vaticano II. Cosa rimane del suo “metodo” di instancabile ricercatore della verità della (e nella) fede?
L’ascolto di tutti, di tutte le voci e le opinioni, incluse quelle del passato, dei padri, dei santi, della tradizione in generale, perché la Chiesa è una sinfonia che unisce la terra e il cielo. Di qui anche l’attenzione al presente, che interpella e aiuta a scoprire territori inesplorati, verso il quale siamo comunque debitori, per render ragione della speranza che è in noi. Ed infine il tentativo di fare una sintesi, che non mortifichi nessuno degli elementi in gioco e parli agli uomini di oggi. Si comprende così la sua propensione per il personalismo dialogico, come quadro interpretativo sintetico.
La sua enciclica “Caritas in Veritate” del 2009 pone accanto due termini che spesso sono visti difficilmente coniugati insieme…
Personalmente non ho mai visto una difficoltà nel coniugare insieme amore e verità. Nell’enciclica in questione poi c’è una voluta insistenza nel rilevare come un amore che non tenga conto della verità non sarebbe neppure vero amore, perché occorre conoscere bene le persone da amare per amarle veramente e non asservirle a un progetto ad esse estraneo. D’altra parte è sempre stato richiamato da Ratzinger, sulla scorta di San Bonaventura, che per amare occorre conoscere e per conoscere occorre amare. Come scrive inDonum veritatis 7: “Nell’atto di fede, l’uomo conosce la bontà di Dio e comincia ad amarlo, ma l’uomo desidera conoscere sempre meglio colui che ama”.
Il ruolo di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede svolto per decenni gli ha cucito addosso la fama di “guardiano della ortodossia”, quasi che tutto debba sempre rimanere fermo e uguale e che non ci possa essere evoluzione nella “presentazione della fede”. Cosa è l’ermeneutica della continuità?
Nel discorso alla Curia per gli auguri del Natale 2005 Papa Benedetto richiamò un principio generale della comprensione della fede: l’ermeneutica della continuità o meglio “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. La fede non è infatti qualcosa che si inventa ad ogni generazione, ma la si attinge da una tradizione almeno bimillenaria, che risale a Cristo, agli apostoli e anche all’Antico Testamento. Ora questa fede cresce come un seme, perché ogni generazione stimola ad approfondimenti e sviluppi, ma sempre nella stessa linea e nello stesso senso. Perciò anche ogni intervento del magistero conciliare o pontificio deve essere compreso in continuità con la radice da cui emerge, non può contraddirla. L’opera del cardinale come Prefetto della Congregazione era appunto quella di segnalare ai teologi eventuali difetti al riguardo di questa continuità, qualora essi, preoccupati di parlare al mondo di oggi, trascurassero un dato essenziale della tradizione cristiana, cioè della “dottrina di fede”.
Sul piano ecumenico, quale è secondo lei il contributo più rilevante di Ratzinger papa?
La preoccupazione ecumenica è sempre stata una caratteristica di Ratzinger, anche per il Paese in cui è nato, in cui cattolici e protestanti vivono gli uni accanto agli altri, ed egli ha sempre intrattenuto relazioni amichevoli con teologi evangelici, come ad esempio Jungel, e ortodossi. Vorrei ricordare i saggi pubblicati già nel 1987 in “Chiesa, ecumenismo e politica: Problemi e speranze del dialogo anglicano-cattolico, Lutero e l’unità delle chiese, Progressi dell’ecumenismo”, e il suo impegno nel seguire e portare ad una conclusione positiva la Dichiarazione Comune del 1999 sulle verità fondamentali riguardanti la giustificazione. Questa sensibilità ecumenica lo ha sempre sollecitato ad approfondire i rapporti fra primato e collegialità e il preciso ruolo del papato. Si pensi ai due Simposi sul primato del successore di Pietro, da lui promossi come Prefetto della Congregazione. Da Papa egli ha continuato con incontri e dialoghi quella che era la sua attitudine precedente.
E sul versante dei rapporti interreligiosi, soprattutto con Ebraismo e Islam?
Questo aspetto ha sempre segnato i suoi interessi di teologo, a partire dai corsi universitari sulle altre religioni, in particolare l’induismo. A parte i numerosi scritti su queste problematiche, vorrei menzionare la sua preoccupazione per il progresso nel dialogo interreligioso, che lo portò da papa a incorporare il Consiglio per la cultura nel Dicastero per il dialogo interreligioso, nell’intento di favorire il dialogo sul piano culturale, evitando di affrontare immediatamente i problemi teologici, che possono essere più difficili come temi su cui dialogare. Quanto alla sua costante attenzione per gli ebrei, vorrei ricordare in particolare l’ultima sua pubblicazione “Ebrei e cristiani” (2019), in cui indica diversi temi su cui è possibile fin da ora trovare convergenze, primo fra tutti il tema del Messia sofferente. Quanto all’Islam è a tutti noto che la conferenza di Ratisbona del 2006 voleva essere una mano tesa all’Islam, perché si aprisse ad un dialogo sempre più fondato sulla ragione, ma purtroppo al momento vi furono gravi malintesi, poi superati proprio da molti intellettuali islamici.
Don Damiano, devo chiederglielo: ci sono settori della Chiesa che guardano a Ratzinger con spirito nostalgico, quasi una insofferenza nei confronti del magistero di papa Francesco. Eppure fra i due, negli anni della cosiddetta “convivenza”, i rapporti sono stati più che cordiali, direi fraterni…
Fra i miei ricordi più limpidi resta quello di quando mi recavo in visita da Benedetto al monastero ed una delle prime domande era sempre: “Come sta il Papa?”, espressa con l’affetto di un fratello, sinceramente interessato alla persona che sta esercitando in quel momento il delicato ministero di successore di Pietro.
Non vorrei terminare questo colloquio senza un cenno all’attualità delle polemiche…
Don Damiano mi sorride e si alza per congedarmi. Il colloquio è terminato. Il silenzio del grande seminario torna ad avvolgerci. Mentre lo saluto a me tornano in mente le parole pronunciate da papa Francesco all’Angelus del giorno dell’Epifania: “Il Signore s’incontra nel silenzio”.
(intervista a cura di Giorgio Acquaviva)