Il diritto di essere folli nell’età dell’intelligenza artificiale

Perché è utile coltivare la filosofia nelle nostre società ipertecnologiche

“Non c’è niente di così folle che non sia stato detto da qualche filosofo”, diceva Cicerone poi ripreso da Cartesio. Ma il diritto a essere folli e sognatori riguarda gli innovatori di ogni tipo. In primis, a ben vedere, gli imprenditori. E quali sono, nello scenario attuale, gli imprenditori apparentemente più folli, i più proiettati nel futuro se non i protagonisti della space economy? Un grande filosofo anglosassone di fine Settecento, un riformista radicale poco noto in Italia e spesso demonizzato, Jeremy Bentham, si erse a difensore di quelli che ai suoi tempi venivano chiamati projectors. Non era un complimento: erano personaggi i cui progetti futuribili erano considerati castelli in aria, o bolle di sapone. Bentham operò un abilissimo rovesciamento semantico e fece capire che invece erano proprio loro, i projectors, – più degli stessi entrepreneurs, come già cominciavano a chiamarsi – i veri imprenditori, anticipando così l’idea dell’imprenditore creativo alla Schumpeter.

Bisogna poter dare una chance anche alle idee più folli, sosteneva in rispettosa polemica con il grande Adam Smith, il padre dell’economia politica, che secondo Bentham sbagliava a voler difendere le misure del governo inglese contro l’usura, le quali abbassavano il livello massimo del tasso di interesse dal 5 al 4%. Alla prudente saggezza tipica degli agenti smithiani, Bentham, nel suo pamphlet In difesa dell’usura, opponeva la un po’ folle propensione al rischio dei projectors. Erano loro le vere vittime dell’abbassamento dei tassi – da cui sarebbe derivata una “selezione avversa” – trovandosi in competizione con operatori meno dinamici, se non improduttivi, ma che fornivano maggiori garanzie nell’accaparrarsi una risorsa scarsa, il denaro prestato, resa ancor più scarsa dal limite imposto per legge….

Non mi voglio addentrare qui nei sogni folli che hanno coinvolto alcuni protagonisti della space economy che, ragionando come in un catastrofic movie sulla futura estinzione del genere umano, sostengono che dobbiamo concentrare i nostri sforzi finanziari sulla salvezza spaziale del medesimo, anche al prezzo di trascurare alcuni dei problemi dell’umanità attuale, marginali rispetto alla grandiosità di salvare l’intera specie. Il loro è il portare alle estreme conseguenze il sogno di Bentham. Mettendo nel conto del calcolo della felicità totale, anche le generazioni future – la cui felicità si immagina anche maggiorata da straordinarie innovazioni cyber e postumane – ha senso convogliare ingenti investimenti verso il futuro, e non invece, per esempio, verso il salvataggio di vite attuali o il miglioramento delle condizioni di coloro che ancora vivono in totale povertà, il che richiederebbe un impegno finanziario peraltro assai minore. Il longtermism ha attecchito anche in università prestigiose come Harvard, ed è oggetto di discussioni interessanti, rispetto alle quali però il vecchio Marx (nel senso di Groucho, ovviamente) avrebbe ripetuto una sua famosa battuta: «Perché dovrei occuparmi delle generazioni future. Che cosa hanno fatto loro, per me?». Meglio tornare al sogno originario di Bentham, a un modo un po’ meno estremo per collegare la space economy a una più umana promessa di felicità…

L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico ha avviato l’iniziativa Space4s. Nel 2018  ha condotto uno studio in cooperazione con quella che allora era la European Agency e, nell’analizzare sistematicamente i 169 sotto-obiettivi dell’Agenda 2030, ha utilizzato i programmi europei Galileo5 e Copernicus6, dedicati rispettivamente ai settori di geolocalizzazione e navigazione di precisione il primo, e di osservazione della Terra il secondo. «Da questa analisi dettagliata e in un’ottica conservativa – scrive Simonetta Di Pippo –, è risultato che il 40% dei sotto-obiettivi (65 su 169) è fortemente dipendente dalle attività spaziali. Ciò implica che gli Stati membri delle Nazioni Unite potranno raggiungere con più facilità i diciassette SGDS entro il 2030 soltanto se utilizzeranno la ricerca e le tecnologie spaziali come volano e acceleratore di questo processo».

Dopo aver mostrato nel dettaglio punto per punto in che modo la space economy contribuirà a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, Di Pippo conclude che a oggi: «Gli asset spaziali sottendono a circa il 10% del Pil, con vantaggi per i settori più disparati, e rappresentano un fattore decisivo per una serie di sfide locali, regionali e mondiali. Lo spazio, e con esso la space economy, non è e non deve essere il diciottesimo SDG, come ogni tanto qualcuno profetizza. La space economy è trasversale a tutte le sfide, e rende possibili le soluzioni» (il corsivo è mio). Questa trasversalità della space economy non deve farcene dimenticare un’altra: quella dello straordinario intreccio dei saperi che la riguardano. E, non meno importante, che questa varietà di saperi è un tratto essenziale della ricerca scientifica, soprattutto quella di base. Quando Kirchhoff ha fondato la spettroscopia, o Einstein ha elaborato la relatività generale, non avevano la minima idea di quali applicazioni questi avanzamenti del sapere avrebbero generato. Per questo è encomiabile che Di Pippo ci ricordi questo aspetto fondamentale

Arrivati fin qui cominciamo a capire che forse c’è una logica in queste apparenti follie. O meglio, in realtà, c’è “una filosofia”, che è bene non resti più a lungo nascosta: la filosofia che io ritengo sia utile coltivare oggi nelle nostre società democratiche e ipertecnologiche. E che ci riguarda in quanto cittadini che, grazie ai satelliti, alle reti informatiche, ai big data, miglioriamo enormemente le nostre vite ma siamo anche ignari del funzionamento di tutto questo. Abbiamo un approccio magico con la tecnologia. Non solo, spesso non siamo abbastanza consapevoli di quanto il bene e il male, o il buono e il cattivo uso di una tecnologia, siano strettamente intrecciati.

Perché Elon Musk ci teneva tanto a comprare Twitter? E perché anche per lui il business dell’intelligenza artificiale è così importante? Certo, c’è un legame evidente tra i satelliti con cui sta intasando lo spazio intorno alla terra e le nostre vite di compulsivi utilizzatori di smartphone. Non è che tutto ciò si lega alla necessità di influenzare le nostre scelte (attraverso i dati che noi stessi regaliamo alla rete), non solo consumistiche, ma anche politiche? Per dire nella maniera più semplice perché, in tutto ciò, avere una filosofia, definendone con accuratezza gli ingredienti, secondo me è importante, parto dalla mia vicenda personale, di quando ero studente. Il diritto a essere folli e sognatori riguarda innanzitutto proprio gli studenti. E questo credo abbia anche a che fare con le motivazioni che spingono molti dei nostri laureati migliori a lasciare il Paese.

Come molti miei coetanei, all’inizio degli anni ottanta, dopo la maturità, mi ponevo il problema della scelta universitaria. Il consiglio prevalente era di iscriversi o alla Bocconi o a informatica, perché erano le uniche scelte che davano garanzie per trovare lavoro. Verissimo. Sconsigliatissime erano invece le facoltà umanistiche, considerate dei meri parcheggi per futuri disoccupati. Vero anche questo. Se decisi di iscrivermi a Filosofia era, da un lato, perché, un po’ romanticamente, pensavo che fosse più produttivo impegnarmi in ciò che mi piaceva e mi appassionava, senza preoccuparmi troppo del dopo. Ma, dall’altro, anche perché scorrendo il libretto dei programmi di studio di informatica avevo avuto l’impressione che tutto fosse incredibilmente arido. Mancavano quasi del tutto non dico la filosofia (non chiedevo tanto!), ma la fisica, la matematica, persino la logica, la storia della logica e, oserei dire, addirittura la teoria della programmazione.

 Mi puzzava di qualcosa che avevo già notato a scuola: ti fanno fare un sacco di equazioni, e magari sei anche bravo a farle, ma raramente ti spiegano bene a che cosa servono, da quali esigenze sono nate, e che cos’è veramente la matematica, da dove viene il suo straordinario fascino culturale. Forse mi sbagliavo, o forse esageravo, ma immaginavo che con quei piani di studio si potesse benissimo diventare provetti programmatori, essere ricercati dalle aziende e assunti in tempi rapidi, molto prima di finire l’università – come in effetti è successo a molti miei coetanei –, rimanendo però del tutto inconsapevoli dei saperi, dei loro metodi e delle criticità che sottendevano quelle pratiche tanto efficaci e produttive, rimanendo in quella condizione per tutta la vita.

In quei programmi non c’era nulla del fascino che avevo trovato leggendo, come milioni persone nel mondo, un libro come Goedel, Escher e Bach (o anche il delizioso “libro di base” sull’Infinito di Lucio Lombardo Radice). Logica, matematica e filosofia (e persino musica, arte e letteratura) lì si intrecciavano mirabilmente. Se è vero, come diceva Montaigne che, quando si parla di educazione, «il vero problema non sono le teste piene, ma le teste ben fatte», a me pare che oggi, come allora, ci si preoccupa di più delle prime e meno delle seconde.

Si insiste sull’aspetto professionalizzante (che per carità, sono il primo a dirlo, non va certo trascurato) a scapito della formazione della personalità, che è il vero fine dell’educazione, e che, nell’era della space economy e dell’intelligenza artificiale, deve essere animata da un pensiero critico che si nutre dei saperi necessari perché possiamo definirci cittadini consapevoli del nostro tempo. Sarebbe anche interessante vedere, analizzando il fenomeno dei nostri giovani che se ne vanno all’estero, se ad andarsene non siano proprio quelli più motivati, e magari anche loro un po’ romantici, ma anche i più lungimiranti, nonché dotati di inventività e di spirito critico, cioè le «teste ben fatte”, e a rimanere in patria siano invece nel migliore dei casi le «teste piene», e nel peggiore quelle completamente vuote. Naturalmente estremizzo provocatoriamente. Inutile dire di quali teste ha bisogno un settore all’avanguardia, protagonista insieme all’intelligenza artificiale di una nuova straordinaria rivoluzione industriale, come la space economy. Mi chiedo anche se a distanza di tanti anni, fare filosofia fosse davvero una scelta così “romantica”, e come tale azzardata e addirittura folle e sconsiderata. Sì e no. Gli psicologi che si occupano di razionalità, come Paolo Legrenzi, ci hanno spiegato che per decisioni di questo genere, che somigliano a quelle amorose e a tutte le altre di lungo periodo, non è saggio rifarsi alla classica razionalità strumentale cara agli economisti. È saggio, invece, fare una scommessa globale sul proprio futuro, su chi si vuole essere o diventare, in relazione a un mondo che cambierà e crescerà insieme a noi. Sono in senso pieno scelte di vita…

Oggi che la space economy è la nuova frontiera, che ingloba e rilancia altri settori – l’informatica, la new economy, internet, l’intelligenza artificiale –, è bene mantenere ancora di più le menti allenate e aperte. Non fosse altro per il carattere multidisciplinare di questi settori altamente innovativi. Essere un po’ filosofi credo che oggi, ancora più di allora, sia una scelta alquanto razionale, utile e necessaria, anche se oggi non suggerirei di iscriversi a Filosofia. Il mio sogno da riformatore o da costruttore di sistemi (per dirla ancora con Bentham), da pazzo, o da mostro di saggezza, è piuttosto che la filosofia sia inglobata in tutto il nostro fare e in tutti i nostri i saperi, per generare consapevolezza dei metodi, dei limiti, delle opportunità, dei rischi e dei risvolti etici.

Se un poeta, un musicista e un filosofo si sono ritrovati, grazie alla felice intuizione di Luca Paolazzi , in un contesto di esperti della space economy è perché, se pure è vero che oggi più che mai è necessario convincere i giovani – e ancor di più le giovani, scoraggiate fin da piccole a intraprendere carriere tradizionalmente considerate maschili – a iscriversi alle STEM, è bene che all’acronimo, che sta per Science, Technology, Engineering e Math, venga aggiunta la “A” di Arts. Se non fosse che, per fortuna, questa trasformazione in STEAM, e l’idea di immettere dosi importanti di umanesimo nelle facoltà scientifico-tecniche, è già diffusa e praticata in diversi Politecnici e Atenei, verrebbe davvero da pensare che si tratta di una follia tipica dei filosofi.

In realtà, molto dell’armamentario multidisciplinare che ha generato la nuova rivoluzione industriale cui stiamo assistendo – che ha per protagonista l’intelligenza artificiale, settore fortemente intrecciato con la space economy – è ancora scoraggiato nel nostro sistema educativo e universitario, che erige barriere insormontabili spesso proprio tra quelle discipline dal cui intreccio dipendono molte delle innovazioni della realtà contemporanea. O non è vero che, come dicevamo, gli straordinari sviluppi nella computer science e nell’intelligenza artificiale sono frutto di quasi un secolo di interazioni fertili tra studiosi di discipline diverse?…

Il testo è una versione abbreviata del saggio di Armando Massarenti “Da filosofi, scienziati e imprenditori (e poeti e musicisti) una folle saggezza per i nostri ragazzi” pubblicato nel volume “Nord Est 2023. La mappa delle possibilità infinite – Forze inespresse, attrezzi utili e percorsi fruttuosi” a cura di Gianluca Toschi, Luca Paolazzi (Marsilio), della Fondazione Nord Est di Mestre. La Fondazione esplora le politiche per i diversi attori (governo a tutti i livelli, imprese, famiglie, lavoratori, sindacati) e analizza le risorse disponibili e gli strumenti utilizzabili. Tra i temi trattati, la fuga dei giovani e l’immigrazione, le competenze applicabili in nuovi campi (come la space economy) e l’istruzione. Con l’aiuto di poesia, filosofia e musica

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