L’economia reggiana non è più uno dei motori di sviluppo dell’economia regionale, ma sta pagando la crisi più duramente rispetto al resto dell’Emilia Romagna. Il nostro modello di sviluppo che punta sulla specializzazione e l’export mostra preoccupanti segnali di cedimento. Riscrive le previsioni di crescita per i prossimi anni il nuovo Osservatorio sull’economia e il lavoro della provincia di Reggio curato dall’Ires (Istituto ricerche economiche e sociali) Cgil, che sarà presentato ufficialmente il 30 novembre.
Secondo i modelli previsionali il contesto economico vedrà una crescita ad un tasso dell’1,8% nel 2011, dell’1,4% nel 2012 e dell’1,2% nel 2013. In realtà, l’andamento dell’economia reggiana è dal 2005 che non supera in dinamica l’economia regionale. E’ l’effetto di performance particolarmente negative del comparto industriale, sia dell’industria in senso stretto che nel 2009 ha fatto registrare una caduta di oltre il 14% sia delle costruzioni che nello stesso anno hanno mostrato un tracollo del 22% dell’attività produttiva. Secondo il report dell’Osservatorio, infatti, la particolare specializzazione dell’economia reggiana l’ha resa particolarmente vulnerabile alla forma della crisi. L’unico comparto che ha mantenuto le linee di crescita del resto dell’economia regionale è quello dei servizi, che però sconta storicamente una minore incidenza sul complesso dell’economia rispetto ai territori più sviluppati della regione.
Uno degli effetti di questo andamento è che il Pil procapite della provincia si è attestato nel 2010 su un livello di poco superiore a quello del 2005, mentre il Pil procapite regionale si colloca nel 2010 a un livello superiore a quello raggiunto nel 2006. In altri termini la popolazione della provincia di Reggio Emilia ha pagato e sta pagando la crisi più duramente rispetto al resto della regione. Nonostante il quadro congiunturale mostri segnali incoraggianti secondo i quali il settore manifatturiero ad inizio 2011 ha visto crescere ordini, fatturato e produzione, l’incertezza rimane alta e la situazione appare lontana da una soluzione stabile.
Il fatto è che il modello produttivo della provincia è orientato all’esportazione ed è trainato dalla domanda estera. Tuttavia, mentre negli anni passati la dinamica delle esportazioni mostrava a Reggio Emilia un’intensità superiore a quella dell’intera regione, negli ultimi anni e in particolare nel 2010, la dinamica regionale supera in intensità quella della provincia: l’economia regionale si avvantaggia di una crescita del 16% mentre l’economia reggiana di solo il 13%. I migliori comparti sono quello meccanico, ceramico e materie plastiche.
I mercati esteri che tirano di più sono quelli asiatici e sud-americani, mentre le aree di tradizionale destinazione delle nostre esportazioni per il manifatturiero, l’alimentare e l’abbigliamento ( UE e Nord America ) sono in sofferenza . Da qui la necessità per le nostre imprese esportatrici di riposizionarsi su queste aree, notoriamente più “difficili”.
Le criticità del sistema
Nel corso degli ultimi anni il sistema ha cercato un forte recupero di produttività. Questo denuncia una ancora insufficiente tendenza ad aumentare il valore aggiunto per unità di prodotto ( manifattura “povera”, prezzo come principale fattore competitivo ). L’incertezza delle performance si fonda su alcuni elementi critici. Il recupero di produttività è stato inferiore alla media regionale nei settori industriali per cui ci dobbiamo attendere un periodo di aggiustamento del rapporto fra valore aggiunto e unità di lavoro che si allunga nei prossimi anni. L’aggiustamento avviene a scapito delle imprese più piccole e delle imprese artigiane: il quadro complessivo mostra che fra il 2009 e il 2011 in provincia si registra un calo delle imprese attive due volte superiore a quello complessivo regionale collocando Reggio Emilia fra le province peggiori assieme a Ferrara e Ravenna.
Sono le imprese più grandi a mostrare le performance migliori, mentre le più piccole – in particolare le artigiane – evidenziano dati congiunturali fortemente negativi. L’aggiustamento cioè è avvenuto stressando l’indotto e la sub-fornitura. L’analisi per settori dimostra che il calo è maggiore nel comparto industriale in senso stretto, in particolare per i prodotti in metallo e per il sistema moda, mentre il calo è inferiore per le imprese di costruzioni ( è questo è un ulteriore segno di disgregazione di quel settore in quanto si tratta ancora spesso di finto lavoro autonomo ) Crescono invece le aziende, anche artigiane, nel settore dei servizi all’impresa, nell’istruzione e nel welfare ( white economy ). In sostanza, si và verso una polarizzazione : da una parte imprese industriali più strutturate, anche in forma di società di capitali, dall’altra una riduzione dell’artigianato manifatturiero, una terziarizzazione a società individuali e “liberi professionisti”.
La vittima è il lavoro
Il tasso di crescita della cassa integrazione totale è marcato. Anche nel 2010 si è registrato un incremento del 67% del ricorso alla cassa integrazione con un aumento del 400% della cassa in deroga e del 125% di quella straordinaria. ( oltre 8600 lavoratori equivalenti ) L’utilizzo di ammortizzatori sociali in questi anni ha permesso sino a qui una sostanziale tenuta dei livelli occupazionali nelle imprese strutturate.
Ma l’occupazione nel suo complesso continua a diminuire, collocandosi nel 2010 al livello di 234.110 occupati, rispetto ai 241.810 del 2009 e ai 245.727 del 2008. Il calo del tasso di occupazione (meno 2,7%) colpisce in modo più forte le donne (meno 4,4%) rispetto agli uomini (meno 1%), inducendo peraltro un fenomeno incisivo di scoraggiamento che porta il tasso di attività femminile al 61,1%, il più basso del decennio trascorso, e il più basso fra tutte le province della regione.
Reggio Emilia ha un tasso di sottoutilizzo della forza lavoro pari a 9,6%, lo 0,9% in più rispetto alla media regionale. Inoltre, il rapporto fra sottoutilizzo e disoccupazione è pari a 1,78 che significa che ogni 100 disoccupati ci sono 78 fra scoraggiati e cassintegrati. E’ questo uno dei dati più elevati di tutta la regione (solo Piacenza presenta performance del mercato del lavoro peggiori) ed evidenzia la profondità della crisi che il tessuto sociale locale ha sperimentato e sta ancora sperimentando.
A questo si aggiunge un sempre più marcato dualismo generazionale sul mercato del lavoro locale: il peso delle classi di età comprese fra i 15 e i 34 anni sul totale dell’occupazione si è andato progressivamente riducendo, passando dal 36,3% degli occupati totali al 29,3% fra il 2005 e il 2010 con un calo più marcato ( – 9% ) tra le professioni tecniche, intellettuali e ad alta qualificazione, mentre aumentano i ruoli impiegatizi e nelle vendite. In sostanza abbiamo una base lavorativa che invecchia e che si concentra sui ruoli esecutivi piuttosto che su quelli ad elevata professionalità.
Aumenta ancora il peso degli occupati di provenienza extracomunitaria. Essi sono da considerare come “il cuscinetto” di contenimento delle tensioni del mercato e garantiscono la flessibilità di gran parte dei processi produttivi. Anche questi dati spingono a pensare che il grosso della economia provinciale persegua ancora una strategia competitiva basata sulla compressione dei costi dei fattori produttivi piuttosto che sulla innovazione dei prodotti / processi o sulla ricerca di nuovi prodotti / mercati.
Gli squilibri territoriali indotti dalla crisi
Le dinamiche del sistema territoriale hanno visto un sostanziale incremento di attività produttive in tutti i comuni della provincia che negli anni fra il 2000 e il 2008 hanno evidenziato una crescita nella numerosità delle imprese attive a tassi medi del 10% annuo. A partire dal 2009 si è avuto il fenomeno inverso, e soprattutto nelle aree a maggiore industrializzazione si è registrata una significativa contrazione del numero di imprese attive. Il lungo periodo di crescita industriale e produttiva ha portato con sé uno sviluppo anche residenziale del territorio, la crisi impatta quindi su aree che avevano sperimentato una crescita significativa ed accelerata della popolazione. La contrazione dell’attività produttiva e il ricorso massiccio alla cassa integrazione sottopone i comuni interessati ad uno sforzo supplementare di gestione delle problematiche sociali.
L’impatto della crisi infatti si riflette anche sull’organizzazione sociale nel territorio. Il sistema economico provinciale non è omogeneo nella sua distribuzione delle varie attività economiche. Poiché gli effetti più evidenti della crisi sono la riduzione della capacità economica delle famiglie, la vocazione più o meno residenziale dei comuni della provincia determina uno squilibrio nella pressione della domanda di assistenza e supporto sui singoli presidi sociali. In assenza di meccanismi di perequazione delle entrate, ma soprattutto dei costi da sostenere, i Comuni dove scarseggiano le attività economiche ma si concentra la popolazione residente si trovano più in difficoltà nel fronteggiare la pressione della domanda di assistenza.
Il sistema territoriale provinciale si conferma nettamente diviso in due parti con la città capoluogo a fare da cerniera e centro regolatore. La ipotesi di un maggior sviluppo futuro del settore dei servizi in senso ampio, in quanto meno legati alla vicinanza alle attività industriali, potrebbe fornire una traiettoria possibile di specializzazione e di nuove occasioni a quei territori che oggi sono penalizzati da una minore industrializzazione o da una maggior perdita di attività economiche tradizionali. Il segno di questa riorganizzazione si può già oggi leggere nei comuni di Cavriago, Rubiera, Rio Saliceto. Le dinamiche legate alla crisi economica si sommano a tendenze di fondo che erano già in atto.
La popolazione era già in crescita nella provincia e si muoveva più velocemente che in Regione. Nel 1991 la popolazione della provincia era il 10,7% della popolazione regionale, nel 2010 è il 12%. La dinamica della popolazione sul territorio provinciale non è però omogenea, le aree in crescita più accelerata sono quelle centrali dei distretti di Reggio Emilia e di Scandiano, mentre quelle che mantengono un tasso di crescita in linea con l’andamento provinciale sono il distretto di Montecchio e Correggio. Il distretto di Guastalla e quello di Castelnovo Monti evidenziano un rallentamento.
La popolazione in età non lavorativa aumenta rispetto a quella in età lavorativa. In particolare, sono in crescita le classi giovani e diminuiscono le classi dai 20 ai 30. Le persone che escono dalla forza lavoro (over 65 anni) sono il 13% in più di quelle che vi entrano (under 15 anni) e i lavoratori ultra quarantenni sono il 35% in più dei lavoratori giovani (under 40 anni). Scandiano è il distretto che ha risentito di più questo fenomeno, Castelnovo quello che mantiene i livelli più elevati, Reggio e Correggio quelli che hanno invertito il trend degli anni 90. Occorre evidenziare che tale dinamica si rileva anche tra la popolazione residente di origine extracomunitaria, a causa della minore richiesta di nuovi lavoratori ed al radicamento di quelli già presenti. Questo fenomeno ormai consolidato, al netto degli effetti della crisi, modifica il mix della domanda di servizi a cui le amministrazioni pubbliche sono chiamate a dare risposta.
Più in generale si nota che mentre negli anni ’90 e la prima metà degli anni 2000 tutto il nostro territorio attirava dall’esterno giovani lavoratori, sia nazionali che di provenienza estera, dalla seconda metà di questo decennio il trend si è invertito ed i giovani locali in età lavorativa cercano soluzioni all’esterno della propria area distrettuale. Scandiano, seguito da Reggio e Correggio sono i distretti che hanno risentito di più di questo fenomeno, che prima riguardava solo Castelnovo Monti. Sarebbe interessante capire se questo movimento in uscita dei giovani lavoratori si rivolge anche al di fuori della nostra provincia, od addirittura della stessa nazione, e se presenta caratteristiche più accentuate – come sospettiamo – al crescere della scolarità dei soggetti.
Il mercato del lavoro, così come la produttività risentono negativamente di questo fenomeno che può portare nel medio termine ad un’ulteriore perdita di competitività. In ogni caso si tratta di un ennesimo segnale negativo per la tenuta del nostro sistema socio-economico.