Esserci; o non esserci. Se sia più nobile partecipare al Concertone del Primo Maggio con cachet degni di nota mentre gli altri privi di contratti da, sempre, fanno la fame, oppure rintanarsi in qualche centro sociale a suonare la Mazurka dell’Uccellino e fare di necessità proletaria virtù ma senza tanti clamori? Presi tra le due sponde, c’è il caso che, come concludeva Amleto, sia meglio alla fine morire – o come minimo addormentarsi, cosa non difficile – e porre fine, cosa da desiderarsi devotamente, ai tumulti della carne e all’imbecille, onnipresente chiasso mediatico che da certe kermesse prende inevitabilmente le mosse. Chiasso che può avere il suo calcio d’avvio in qualsiasi cosa, visto che ormai qualsiasi cosa è diventata scontro di fazioni; figuriamoci quelle che scontro di fazioni, già erano da un bel pezzo. E qui il Primo Maggio casca a fagiolo, perché non si capisce esattamente come mai, in un Paese i cui cittadini votino nel 70% dei casi a destra o centrodestra, la Festa del Lavoro (che per la precisione sarebbe poi Festa dei Lavoratori) debba essere una cosa considerata di sinistra. Certamente, nel 1887 la cosa aveva tutt’altro sapore, e lo manteneva anche alla sua proclamazione, nel 1889. Ma già nel suo inserimento nel calendario italiano, nel 1891 la situazione era mutata e rispecchiava tutta la complessità propria del soggetto; complessità a volte isterica, se si pensa che la legge che ratifica la giornata di 8 ore lavorative è del Governo Mussolini (1923) e che solo l’anno successivo il 1° maggio viene eliminato e seppellito dal Natale di Roma, il 21 aprile (sarà ripristinato solo con la caduta del Fascismo).
Il lavoro, è di destra o di sinistra? Non riusciamo a non pensare alla distinzione salumiera di Gaber, quando arriviamo a respirare le arie rarefatte di simili vette concettuali. Di sicuro, di progresso (magari anche di progressismo, ma con riserva di valutare) c’è bisogno, in un mondo del lavoro arroccato ancora su situazioni, culture, considerazioni che non sono quelle ottocentesche solo perché renderebbero molto meno di quanto non faccia l’applicazione di tempi e metodi attuali (oddio, attuali, quando si agita il lenzuolo dello spettro del Taylorismo si dovrebbe anche dire che fu una miserevole truffa della quale troppo poco si parla). E’ di sinistra, più lavoro per tutti, quando poi si risolve in poco o nulla stipendio per ciascuno? E’ di sinistra la lotta all’azienda di 5 addetti che poi chiude e lascia tutti a casa? E’ di destra l’azienda di famiglia, quando poi se il titolare invecchia nessuno dei dipendenti si interessa di prendere le briglie? E’ di centro appellarsi alla Madonna ogni volta che si deve mettere in essere una lavorazione senza i dispositivi di sicurezza abilitati? Dopo qualche annetto di lavoro, siamo arrivati alla conclusione che, fatto salvo il discorso di classe (le differenze tra chi lavora e chi possiede sono oggi più grandi, e più evidenti, che mai, parlando di lavoro dipendente beninteso) il resto sia una indigesta insalatona in cui ancora troppo pochi si rendono conto che proprietà e forza lavoro hanno tutti gli interessi in comune a fare sì che l’attività marci, bene e veloce. Il che significa: salute, sicurezza, formazione, retribuzioni e trattamento adeguati. Non c’è bisogno di essere di sinistra per essere un Olivetti, basta capire che fino a quando il lavoro viene svolto dalle persone deve soggiacere a logiche molto ovvie di soddisfazione dei loro bisogni; altrimenti, o non è lavoro, oppure è destinato a incepparsi, e pure malamente, in un tempo sempre troppo lungo all’ombra di protezioni, soprusi, ricatti, ignoranza.
Questo per dire: alla Festa dei Lavoratori sarebbe buona cosa partecipassero, e con entusiasmo, anche i cosiddetti padroni, a meno che a) possano fare a meno dei primi, b) abbiano una disposizione dell’animo (o di quel che lo sostituisce) tipo capi della Spectre, c) siano persi in un delirio schizofrenico in cui sarebbe meglio fornire loro supporti stile Pet Therapy (e torniamo alla Spectre, come si vede) piuttosto che lasciare loro in mano le aziende. O consentire loro di avviarle, che già è un danno irrimediabile, viste certe coordinate. Ancora di questa, siamo sicuri, coraggiosa e progressista idea (chissà che questo non ci qualifichi come sinistra) si vedono pochi esempi, ma dal nostro punto di vista aspettiamo fiduciosi una breccia nel mare della convinzione ortodossa. Nel frattempo, quello del Primo Maggio è un palco importantissimo per portare avanti istanze di ogni genere: dalle battaglie personali al contributo all’ecologia, dal sostegno al femminismo alla protezione degli anziani (non a caso le chiamano Case Protette, e per fortuna nessuno ha ancora rilevato quanto in effetti siano chiuse), dalle battaglie di fazione politica allo smercio dei propri dischi decotti. Praticamente, l’altra faccia di Sanremo, dove imperano altre case discografiche, oppure la linea Avanti Popolo delle stesse; perché, come mercato insegna, esattamente come accade per le lavatrici, le automobili, le fotocopiatrici e ogni genere di bene di consumo, anche per la musica ci sono solo alcuni grandi e grandissimi produttori e distributori, pronti con tanti diversi rotoli di etichette e di marchi a far uscire prodotti dissimili, o fin troppo spesso appena appena riverniciati, per aggredire i diversi segmenti di mercato (notare come il marketing abbia mediato i termini di uso militare per le proprie necessità: campagna, target, aggredire, strategia, tattica, chiaro segno di una mentalità certamente non cooperativa).
“Riverniciare” è parola che usiamo non a caso: il termine “Pink Money”, ancora poco noto da noi, sta ad indicare tutto quello che si può strizzare dal ridipingere le cose al femminile, o per estensione (che poi ci chiediamo perché mai) alla cultura LGBT, o LGBTI, LGBTQ e quant’altre consonanti e vocali oggi dovremmo aggiungere, si resta sempre un po’ indietro. E’ un mercato ricchissimo, in cui tutti stanno cercando di buttarsi a pesce; si va dal rasoio Gillette rosa che costa solo un po’ più del blu (maschio) ma che ti identifica tantissimo in quanto donna, alla scelta degli assorbenti giusti, al colore dell’automobile (normalissima e di serie ma rosa, lilla, pervinca, magari modelli che soffrono altrimenti sul piano delle vendite) fino alle campagne per la discriminazione, per la violenza, per i diritti che poi, una volta fruttato quel che devono (ossia: croci alle urne) all’atto pratico realizzano il nulla, o poco più, o addirittura risultati controproducenti. La qual cosa passa fin troppo spesso inosservata, perché quando si spegne la soddisfazione del raggiunto podio ormai è troppo tardi per valutare come quelle ragioni che impediscano il reale cambiamento desiderato siano, anche ad una analisi poco più che superficiale, patetiche scuse (la cui corda era già quasi sempre mostrata, se vogliamo, sin dalla propaganda iniziale). Allargando lo stesso concetto oggi possiamo parlare agevolmente di Green Money (soldi tratti dallo sventolare il discorso dell’ecologia), Black e Red Money (i due leggendari blocchi di fazioni italiane, e il termine “leggendari” qui ciascuno lo interpreti come meglio desidera), Gray Money (non è tanto voglia di qualcosa di buono, quanto un desiderio di tornare ad una situazione in cui tutti i telefoni erano grigi e Famiglia Patria Dio Campionato di Calcio Girella e non rompere i maroni), e così via. Individuare le nicchie ed i segmenti di mercato è un gioco bellissimo, benché, come quando si mangiano i carciofi, si rischi di pungersi e l’amaro in bocca non è una opzione poi così impossibile.
Diciamo la verità: il palco del Concerto del 1° Maggio, o i suoi Palchi, è una occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Perlomeno, sulla carta, perché poi conteggiando gli share effettivi i risultati saltano all’occhio: piuttosto modesti, polverizzati da “Amici di Maria De Filippi” (25,8%) e I soliti ignoti: il Ritorno (20%). In generale, a parte fantasiose ricostruzioni, il Concerto va da un discreto (ma non stupefacente) 8% della fascia Access (momento in cui ancora lo spettatore si sta scaldando, per dire, e non ha scelto come passare la serata) al 4% e poco più della fascia Prime Time (dove passano i programmi pagati dagli sponsor) che contano, fatto salvo il picco di ascolto che ha fatto registrare Fedez più che con la sua musica (tanto e quanto) con le sue ormai arcinote esternazioni a latere (7%). Ricordiamo, a titolo di confronto, un Vasco Rossi del 2009 con quasi il 12%: altri tempi, meno intrattenimenti, meno gente sul Web e sicuramente il Blasco con un pubblico (e uno spettacolo) molto nutrito e fedele. Ma non stiamo a sindacare sui risultati: i tempi, come cantava quel tale, stanno cambiando, anzi, sono belli che finiti. Stavolta iCOmpany, per richiamare un po’ di attenzione sull’evento promosso da CGIL, CISL, UIL, ha puntato sul consueto mix aficionados dei palchi di sinistra e dintorni (da Bennato ai Modena City Ramblers, dalla Nannini a Pierò Pelù, sapientemente, insomma, mescolati con Madame, Giò Evan, Colapesce & Dimartino, Bugo ed Ermal Meta, ci siamo capiti come, no? René Ferretti saprebbe ben dirlo) giocandosi la carta calda del momento, Fedez, per alzare un po’ la posta degli ascolti. Ed è qui che è cascato l’asino. Anzi, interi branchi, tipo quelle cacce del Neolitico in cui si spingevano le mandrie terrorizzate giù dal dirupo. Perché, fosse chiaro agli organizzatori sin dall’inizio oppure no, a un certo punto è stato molto evidente agli addetti ai lavori che mentre loro avevano messo in conto i propri sponsor (Galbani, Intesa Sanpaolo, Eni, Gruppo Unipol i maggiori; poi a dire la verità non c’è granché, chissà cosa avrà pagato Pringles, per dire), Fedez aveva i suoi a cui rispondere, e si è ideato uno spettacolo tagliato su misura per essi. Quali siano codesti sponsor, è presto detto: escludendo che lo abbia pagato l’Onorevole Alessandro Zan (cosa che non ci risulta; si badi, abbiamo usato il termine “Onorevole” anche per distinguerlo da gran parte del resto), Fedez e Ferragni (evitiamo l’orribile e odioso neologismo che li assiema) pescano in una vasta e fedelissima fascia che, spostandosi con netta virata nel campo della comunicazione politica nell’ultimo periodo, hanno anche ben delimitato quanto ad ala politica. I componenti di detta fascia sono coloro che mettono il pane in tavola alla coppia (ovvero, fresca alla holding ZDF di Federico Lucia e a Serendipity Srl e Tbs Crew Srl di Chiara) ogni giorno, a suon perlopiù di click, click, click. Parte di questi click sono sicuramente andati anche a rimpinguare le tasche degli sponsor ufficiali, ma non tanti come avrebbero voluto e certamente in un modo andreottiano un po’ disagevole per l’immagine di realtà seriose che vogliono certamente mostrare al mercato. Tant’è vero che, ben lungi (molto, molto ben lungi) dal configurare l’ipotesi di censura, nelle comunicazioni intercorse tra Federico Lucia e i capoccioni e affini è ben chiara (…) la motivazione delle preoccupazioni: ahò, questi qui la prossima volta nun ce pagano. Di qui la richiesta di leggere il testo dell’intervento (ah, la leggenda della libera espressione degli artisti, come se in queste sedi non fosse tutto programmato…) e il consiglio di evitare certi spigoli. Tutto inutile, perché Federico Lucia si è impossessato dello spettacolo: a lui che gli frega? A quegli sponsor, non rispondeva mica lui. Semmai tutti gli altri. Con buona pace delle maestranze, della bontà dell’intervento, dei buoni propositi e tutto il resto, ed escludendo con un trattone di biro rossa le esternazioni stile “ma ha esternato un parere privato e personale”, che parlando di una persona pubblica che si esibisce su di un palco pubblico di quel tenore lasciamo ai più innocenti affinché possano rifletterci in futuro.
Ha fatto bene? Ha fatto male? Ha fatto quanto voleva fare, e ha anche funzionato, perlomeno dal punto di vista dello share, che poi è quello che gli interessa; se gli organizzatori non sono d’accordo, peggio per loro, non si può peccare di ingenuità volando a simili altezze, né mettere in tavola poca bistecca e poi invitare un leone. E’ certo che Federico Lucia non è né scemo, né incapace. Semmai, di discutibile c’è il modo col quale ha voluto condurre la mattanza (appellandosi a censure inesistenti, sommergendo l’interlocutore a suon di polmoni, chiamando ad arbitro il popolo, schieratissimo e molto utile, dei social), ma questo stile è solo la moderna conseguenza di quell’appellarsi al clamore delle piazze cui ci hanno abituati da sempre quelli che non hanno argomenti sufficientemente forti da poterli discutere in maniere rigorosa e civile. Sbagliato anche solo pensare che fosse poi alla fin fine solo un problema di espressione artistica libera e civile, perché le conseguenze di questo giochino si stanno già dipanando, e si inseriscono nel contesto, ben più sanguinoso, del consueto massacro della nomina dei dirigenti RAI, in cui le varie lottizzazioni si spartiscono la carcassa con la territorialità di tigri antropofaghe e altrettanta gentilezza, e in cui i vari Partiti non vedono l’ora di accumulare punti sugli avversari – perché il controllo delle televisioni è una cosa che preme a tutti. Insomma, da questa seratina gentile sortiranno effetti molto seri, spesso in chiave contraria anche magari alle intenzioni difese dai protagonisti fuori e dentro il palco – il palco ufficiale, perlomeno, che è poi solo una frazione del complessivo.
E’ poi giusto il concetto ribadito, difeso, pubblicizzato da Fedez? Dipende da chi lo discute. Secondo molti, certamente no; si fanno fior di campagne per affossare il Ddl Zan e tutto quello che rappresenta. Noi, per farci una opinione ragionata (e partivamo da una base in cui propendevamo per il sì) abbiamo verificato una coordinata: è una ulteriore legge che va semplicemente ad intasare il sistema normativo (già da disboscare col machete), oppure porta una effettiva concreta efficacia nel panorama in questione? Esperti di normativa ci hanno assicurato che, sì, può andare a ricoprire un bisogno che altrimenti non è soddisfatto nel sistema attuale; perciò, dal nostro punto di vista, è cosa buona e giusta. Poi ci sarebbe da discutere come mai le norme attualmente vigenti in materia non vengano applicate e fatte rispettare, come già accade ad esempio per quelle contro il rigurgito dei fascismi (altro campo in cui si assiste alla moltiplicazione delle norme, senza che per questo si veda alcuna efficacia aggiuntiva), e sarebbe importante capire, precedere e rimuovere gli ostacoli a che ciò avvenga; ma questo è un discorso molto più lungo ed ampio. Nel caso in oggetto, e per concludere, dispiace soprattutto che in molti (troppi) siano lì ad argomentare che, siccome la crociata era buona e giusta, con qualunque mezzo sia stato buona cosa portare a casa il risultato; perché questo ragionamento ha come immediato corollario che anche altri possano portare a casa il risultato con qualsiasi mezzo, e che una volta raggiunto, questo sia giusto, mentre invece modi, tempi e soprattutto ragioni (e verità) devono sempre avere la meglio sull’uso della forza. Altrimenti torniamo al punto di partenza, che ha ragione chi può imporre il parere agli altri, e per questo concetto la definizione – noi non la diremo, regalando a chi legge il divertimento nel cercarla, tipo parole crociate.