Il Codice di Camaldoli: la visione cattolica di un moderno stato sociale

Gli 80 anni di uno dei documenti alla base della nostra Costituzione

Il Codice di Camaldoli, più volte edito e riedito (1), elaborato negli stessi giorni in cui con l’ordine del giorno Grandi matura la crisi di Regime, volutamente ed esplicitamente non vuol essere, come chiarisce la sua Presentazione, un vero e proprio codice in senso letterale, fatto di disposizioni puntuali e organiche, ma un ben più pregevole insieme di ragionamenti, riflessioni e proposte, si presta a un bilancio senz’altro positivo, anche se va depurato da giudizi talora enfatici, come se avesse influenzato quasi da solo l’intero testo costituzionale (che fu invece il prodotto di una larga convergenza tra posizioni diverse) e, peraltro, se ne devono cogliere doverosamente anche contraddizioni e omissioni. Non può essere letto (né del resto gli Autori lo intendevano) come un blocco uniforme.

Va apprezzato per il contributo dato soprattutto ai principali articoli della successiva Costituzione economica, ossia al Titolo III della Prima Parte, ed in particolare per aver segnato un punto di rottura rispetto a posizioni statico-corporative, di protezionismo autarchico, codificando diritti e doveri di un moderno Stato sociale, interpretando in senso fortemente espansivo ed evolutivo alcune aperture significative del pontificato di Pio XII degli anni di guerra: la dignità del lavoro, i limiti alla proprietà privata, il giusto salario, i sussidi di disoccupazione, i diritti pensionistici, la tutela della salute del lavoratore, l’importanza dei sindacati, il diritto alla casa, l’estensione dell’istruzione alle classi più deboli e più in generale il concetto ampio di bene comune, prima identificato soprattutto col ruolo della Chiesa per la salvezza delle anime a cui lo Stato avrebbe dovuto dare spazio a prescindere dalle sue caratteristiche più o meno liberali o democratiche. Per questo in precedenza sin da Leone XIII la dottrina cattolica si era assestata sul principio dell’indifferenza rispetto alle varie forme di Stato.

Il passaggio più rilevante lo ha sottolineato Paolo Emilio Taviani, che mostra anche nelle sue Memorie l’impatto effettivo sul testo costituzionale nella parte relativa alla Costituzione economica: il Codice segna una rottura netta col corporativismo perché gli Autori si erano resi conto che esso, nel periodo contemporaneo, era del tutto inseparabile da regimi autoritari ormai rigettati a favore di un’opzione decisa per la democrazia. Segna anche una rottura con l’illusione che alcune puntuali soluzioni di policy come la cooperazione e la partecipazione ai profitti potessero servire come chiave di proposta complessiva di una Costituzione economica.

Non possono però essere taciuti due limiti, ossia un’omissione e un ritardo culturale.

L’omissione consiste nella totale mancanza di riferimenti ai partiti e al loro pluralismo nonché agli assetti istituzionali, ai rapporti tra gli organi dello Stato, alla separazione dei poteri e alla loro interazione, se non per un accenno alla rigidità della Costituzione. Ovviamente essa non era affatto casuale. C’era ancora, come sappiamo bene dalle puntuali ricostruzioni di Scoppola, un dilemma tra la posizione sostenuta dagli ambienti più conservatori a partire dal cardinale Tardini, che intendevano favorire un pluralismo politico dei cattolici sia pure sempre con una sorta di mandato gerarchico, convinti che questo avrebbe pesato a favore della destra, di un equilibrio più marcatamente conservatore, anche a costo di dividere in modo netto il Paese, e i sostenitori di un’unità politica al centro necessitata dal probabile scontro internazionale Usa-Urss con i suoi riflessi interni, che De Gasperi e Montini intravvedevano precisamente da allora.

Oltre alla linea divisoria tra unità e pluralismo, ve ne era appunto anche un’altra, forse ancor più rilevante: per De Gasperi e Montini, come si dirà oltre e come si sarebbe visto nella cosiddetta Operazione Sturzo che entrambi fecero fallire, nella necessaria unità politica l’elemento dell’iniziativa autonoma dei laici aveva una preminenza sul mandato gerarchico che veniva dato al nuovo partito; una lettura diversa rispetto a quella di Pio XII, di Tardini e del mondo romano-curiale. Montini, è doveroso ricordarlo proprio a Camaldoli, luogo montiniano per eccellenza, delle settimane di teologie per laici attive grazie a lui sin dal 1936, è secondo Scoppola il curiale borghese diverso dai romani, “il figlio di una borghesia produttiva che ha la consapevolezza del suo ruolo sociale e del contributo recato allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese” e che per questo supporta la leadership degasperiana nell’unità e nell’autonomia, a differenza del cinismo conservatore del ‘partito romano’. Una differenza che pagò nella momentanea uscita dalla Curia con la nomina a Milano nel 1954. Da un lato quindi stavano unità e primato dell’autonomia, dall’altro pluralismo sbilanciato a destra e primato del mandato gerarchico.

Il ritardo culturale consisteva nell’uso tradizionalistico del diritto naturale, nella visione della Chiesa cattolica come ‘societas perfecta’ in grado di comprendere e interpretare in modo autosufficiente non solo la Rivelazione divina, ma anche una legge naturale intesa in modo statico e astorico: ritroviamo, tra l’altro, la pretesa di costituzionalizzare l’indissolubilità e il carattere gerarchico del rapporto marito-moglie nel matrimonio, la distinzione tra figli legittimi e illegittimi col rifiuto di equipararne i diritti, il rifiuto della coeducazione nel sistema scolastico per la sua ‘uguaglianza livellatrice’, le scuole riservate alle sole donne per la loro funzione familiare, la proibizione della propaganda contraccettiva, le sanzioni penali per qualsiasi forma di aborto anche terapeutico, la confessionalità dell’insegnamento pubblico e, non casualmente, il rifiuto della libertà religiosa con la sola ammissione della tolleranza religiosa sia pure aggettivata come “schietta”.

Questa parte sembra segnata in modo marcato dall’eredità negativa dell’intransigentismo, aggravato in Italia dai lunghi decenni della Questione Romana e, quindi, dall’insistenza su una sorta di peculiarità italiana, da una debolezza del Paese che solo una sorta di tutela religiosa, di protezione ecclesiastica della democrazia a favore di un ordine tradizionale, avrebbe potuto innervare e salvare. Non si può obiettivamente dire che queste posizioni fossero inevitabili e scontate: se si legge il quasi coevo testo pubblicato da Emmanuel Mounier su Esprit del dicembre 1944 con una bozza di Dichiarazione dei diritti, che i costituenti dc avrebbero poi citato più volte nei lavori dell’Assemblea, all’articolo 23 si legge chiaramente: “La donna non può essere trattata in alcun modo da persona minorenne. La legge le garantisce uno status di dignità equivalente a quella dell’uomo nella sua vita pubblica e in quella privata”, mentre l’art. 17 garantiva una piena libertà religiosa e non era prevista nessuna concessione al confessionalismo di Stato, ad una linea di limitata tolleranza religiosa che favorisse la confessione dominante.

Come è noto queste posizioni regressive non erano condivise da Alcide De Gasperi che alla Settimana Sociale del 1945 ebbe a dire: “Avvicinarsi a questa assise dell’Azione Cattolica è come eseguire una grande ascensione montana. Ci si trova in un’atmosfera ossigenata.. Non sempre quando si scende  dall’alta montagna è possibile mantenere la stessa atmosfera ossigenata e direi non sempre la tessa prospettiva può essere attuata quando si tratti di dover fissare una pratica di convivenza civile che tiene conto delle opinioni altrui e che deve cercare una terza via di mezzo fra quelle che possono essere le aspirazioni di principio e le possibilità di azione”.

Due gli elementi di distonia: il primo è che l’apprezzamento del pluralismo da parte di De Gasperi è tale che non sembra assumere il confessionalismo dello Stato come obiettivo massimale, che pare invece essere la “pratica di convivenza civile”, su cui evidentemente pesa l’esperienza fatta nella Resistenza, e il secondo è il tema, a cui si è fatto accenno in precedenza, della competenza della competenza: a chi spetti decidere concretamente quali siano le possibilità di azione. Al Pontefice e i suoi collaboratori, a chi formula a priori formula le ispirazioni di principio, o a chi, il segretario del partito, il Presidente del Consiglio e gli eletti in Assemblea, si trovi concretamente nell’azione? De Gasperi propende chiaramente per la seconda soluzione, per la spettanza ai politici impegnati della competenza della competenza, pur volendo evitare polemiche dirette. Ossia afferma il primato dell’iniziativa autonoma dei laici rispetto al mandato gerarchico. Su donna e famiglia, peraltro, come noto, incideva su De Gasperi la propria esperienza familiare di marito e padre di quattro figlie, in rapporto con donne di accentuato spessore, a partire dalla moglie fuori da paradigmi di sottomissione come notoriamente risulta anche dalle lettere private.

Chiusa la Costituzione in termini formali con l’entrata in vigore l’1gennaio 1948, restava infatti aperta la questione della collocazione internazionale del Paese con le elezioni del 18 aprile. Da essa dipendeva anche la concreta attuazione della Costituzione economica che non vedeva in realtà un’omogeneità tra i suoi sostenitori ed estensori.

Nella ricostruzione di Taviani, che è quella prevalente degli Autori del Codice, lo Stato interventista non era statalista perché esso si collegava alle economie e alle società aperte dell’area occidentale, mentre nell’impostazione dossettiana quel vincolo non ci doveva essere e il Paese doveva abbracciare un’opzione neutralista collegata a un obiettivo ben più elevato di rifacimento dall’alto della società civile, come dichiarato poi nel discorso ai Giuristi Cattolici del 1951, difficilmente conciliabile con una democrazia liberale perché, come rilevato da Scoppola finiva per riproporre un sostanziale monopolio del bene comune da parte dello Stato, “non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società” .

Queste differenze sono importanti perché in anni recenti gli articoli della Costituzione economica sono stati superficialmente accusati di statalismo, dimenticando due aspetti chiave. Il primo è che gli autori erano anche contemporaneamente sostenitori del progetto europeo (oltre che in seguito anche atlantico), che portava con sé la lotta a chiusure corporative: ruolo dello Stato e limiti alla sovranità verso l’alto si tenevano insieme; quando l’articolo 41 della Costituzione parla di ‘controlli’ lo fa anche per prevenire la formazione di monopoli, ossia al tempo stesso per fini sociali e strumenti liberali.

Il secondo è la valorizzazione della sussidiarietà: come ricordava Vittorio Bachelet in sintonia con Taviani l’articolo 41 della Costituzione ha preferito la parola ‘programmi’ a quella di ‘piani’ per indicare una programmazione per incentivi, per premi e punizioni, più che attraverso una gestione diretta statale generalizzata. In questo senso gli Autori del Codice, se comprendiamo bene la ricostruzione di Taviani, pur essendo gli ispiratori primi della Costituzione economica di un moderno Stato sociale non erano affatto distanti dalla sensibilità sturziana sui rischi di degenerazioni statalistiche e assistenzialistiche. Per questo la parte sulla Costituzione economica poté coagulare un consenso vasto, Einaudi compreso.

Del resto quando Taviani deve indicare in termini sintetici quali siano i suoi riferimenti maggiori, che chiama “ideali sociologici” indica puntualmente nell’ordine: “Codice di Camaldoli, Sturzo, Maritain, Mounier”, mentre di Dossetti dice “Troppo grande per poter accettare la vita nel paradiso perduto. Troppo grande per interpretare le regole del minor male”. Quindi se prendiamo per interpretazione autentica del Codice, come credo sia corretto, la lettura di Taviani, Camaldoli era più vicina a Sturzo che non a Dossetti e anche per questo fu base condivisa per una Costituzione economica innovativa ma non statalista. Taviani non nega le degenerazioni stataliste e assistenzialiste, ma ne individua la causa nella mancanza di alternanza al Governo che ha finito con l’appiattire i partiti di Governo sulla gestione statale e che ha spinto i partiti di opposizione per un verso a consociare e per altro a scadere nella demagogia.

Quando ci richiamiamo al contributo dei cattolici dal Codice alla Carta ci imbattiamo quindi in un percorso che davvero, come scritto nella presentazione del Codice, non può essere inteso come un programma nostalgico minoritario per nuovi partiti di orientamento sostanzialmente confessionale di autoghettizzazione dei cattolici, di identificazione in un segmento specifico degli schieramenti europei, ma in quello che è stato davvero, pur con alcuni limiti di una società  più tradizionale e di una comunità ecclesiale ancora segnata da essa, un contributo di “grandi linee per la ricostruzione di un mondo più umano e più giusto” .

http://www.libertaeguale.it/il-codice-di-camaldoli-tra-mito-e-realta-tra-passato-e-futuro/

Total
0
Condivisioni
Prec.
Base Coltano, convergenza trovata sull’ipotesi di riqualificazione area Cisam

Base Coltano, convergenza trovata sull’ipotesi di riqualificazione area Cisam

Base Coltano convergenza trovata sull'ipotesi di riqualificazione area Cisam

Succ.
9 settembre 1943, quando le Waffen SS presero possesso di Reggio Emilia

9 settembre 1943, quando le Waffen SS presero possesso di Reggio Emilia

80 anni fa, poche ore dopo l'armistizio dell'8 settembre, i Panzer del Maggiore

You May Also Like
Total
0
Condividi