Un libro magico, che parla di cose magiche. Magico non perché contenga formule da abracadabra, ma perché riporta il lettore, seguendo il filo della cultura contadina e pastorale, dei braccianti della Pianura Padana emiliana e dei contadini delle vette appenniniche che dividono e congiungono Emilia e Toscana, a un mondo che pur evolvendosi e subendo i contraccolpi della modernità, rimane profondamente arcaico.
E ciò di cui parla, la musica popolare, ovvero quella che si suonava nelle osterie, nei campi, nelle vette ammantate di boschi, è magia nell’antico senso semantico indoeuropeo, ovvero “potere”. Potere antico, evocativo, che tira fuori dai fatti i simboli e le chiavi di un mondo che sprofonda nelle comunità romane e preromane, italiche presenze che si trovano nella forza sconvolgente del canto collettivo dei Braccianti di Persiceto o nell’oscura origine del Ballo del Morto appenninico.
L’autore che ha compiuto questo percorso, e che non giunge alla fine senza essere egli stesso mutato e avendo fatto mutare il lettore, si chiama Stefano Cammelli ed è bolognese. Questa è la strada che ha segnato la sua ricerca, una ricerca musicale, fatta sul campo, nel periodo fra il 1973 e il 1979, con un registratore, penna e taccuini, una macchina fotografica e la voglia di incontrare la musica popolare tradizionale, quella che ormai era stata quasi spazzata via e che vede nel libro “Il bosco magico”, in altre pubblicazioni e negli spettacoli e saggi che ne uscirono, altrettanti presidi per non fare scomparire del tutto un patrimonio straordinario costituito non solo di musica, ma di un mondo complesso, in particolare quello appenninico, che non solo stupisce, ma dà ragione anche di tanti moti dell’animo, pieghe del pensiero che ancora resistono nel “carattere” della cultura bolognese.
Il libro non è, come qualcuno potrebbe temere, un saggio di cultura locale. Anzi, come sempre accade quando si parla in termini di simbolo, il linguaggio si allarga fino a comprendere altre culture ed altre musiche e diventa universale. Ma ciò che rimane nella mente, quando si chiude il volume, sono sprazzi senza tempo di scene quasi archetipiche, dalla magica quiete dei lupi diventati mansueti al suono del violino di un musicista viaggiatore, nei recessi del bosco appenninico, a quella cantata collettiva dei braccianti di Persiceto che sembra, parafrasando l’autore, il canto di un grande fiume di pianura che si muove tutto insieme, una forza inarrestabile. Immagini che sono musica, musica che diventa immagini. Un percorso magico dunque, questo che l’autore ci costringe a fare seguendo la sua ostinata e quasi fatale ricerca, trovando infine ciò che, pur senza quasi saperlo, cercava. E noi con lui.