Tutte le religioni hanno il concetto di luogo sacro: un luogo sacro è un punto di contatto tra la terra e il cielo, permette di trovare il centro della religione e dunque aiuta a raggiungere il centro dellapropria vita. E’ il rito che rende sacro un luogo, riempiendolo di significato e di simbolismi. Come viene sacralizzato lo spazio, nella religione viene sacralizzato anche il tempo, con giorni santi, periodi di digiuno, feste religiose… Ma l’uomo può “sacralizzare” anche il proprio tempo, scegliendo di donarlo a dio; pregando, ad esempio, o compiendo un viaggio per raggiungere un luogo sacro: partendo per un pellegrinaggio.
Se nella preghiera il credente affida la propria anima a dio, nel pellegrinaggio il fedele affida tutto se stesso, anima e corpo, al proprio dio. Il viaggio religioso costituisce, fin dai tempi più remoti, non solo un’occasione speciale di incontro tra gli uomini e la divinità, ma anche un fenomeno di superamento di confini geografici e di distanze, un’occasione d’incontro tra razze e popoli: incontrare gli altri, provenienti da luoghi diversi e tuttavia accomunati da fede e simboli condivisi, fa vivere intensamente l’aspetto comunitario della religione.
Il viaggio di fede è un “itinerarium cordis” alla ricerca de lcontatto con dio o con se stessi, nella speranza di una guarigione, fisica o spirituale e si ricollega ad altri antichissimi riti: da un lato il pellegrinaggio ha delle affinità con i riti di passaggio, dall’altro con i riti di espiazione; l’espiazione è necessaria per l’uomo che si vuole rigenerare, e la rigenerazione è spesso lo scopo principale di un pellegrinaggio. La povertà e la semplicità caratterizzano i pellegrini, che portano da sé il proprio bagaglio, essenziale, e contano soltanto sulle proprie forze; la lentezza e la pazienza sono i loro fedeli compagni di strada.
Il pellegrinaggio sottolinea il senso di provvisorietà della vita terrena: come l’uomo di fede, che crede nell’aldilà dove potrà realizzarsi la vera vita, si sente straniero su questa terra, così il pellegrino si sente sradicato da ogni contesto sociale: spesso, lungo la strada, è guardato con sospetto dalla gente del posto, proprio da quella gente da cui dipende totalmente per il cibo e l’ospitalità. Chi parte per un pellegrinaggio abbandona la sicurezza della propria casa, va contro la corrente della normalità, rompe con la tranquillità delle cose di ogni giorno; inoltre, nei viaggi del passato, il pellegrino parte senza la certezza di tornare ed addirittura senza quella di arrivare alla propria meta: sa cosa rischia di perdere, ma è sicuro che il pellegrinaggio lo avvicini comunque al suo dio e lo porti a conquistare l’eternità.
Con la benedizione della borsa e del mantello e la consegna del bordone da parte del sacerdos, si sancisce l’appartenenza del pellegrino ad una categoria speciale e privilegiata di fedeli; l’uniforme e la benedizione sono anche ritenuti un segno simbolico della protezione divina durante il viaggio, invocata dall’investitura, dall’abito e dalla cerimonia pubblica che precede la grande avventura spirituale dell’uomo medievale. La formula recitata dall’officiante spiega il valore simbolico di due oggetti: la bisaccia, una piccola borsa di pelle sempre aperta, che rammenta i principi di carità e povertà, e il bordone, un alto bastone dalla punta metallica per la difesa dal male e dalle tentazioni del viaggio. Dopo aver fatto testamento, per la morte che può attenderlo in ogni attimo del suo lungo cammino e perché, in realtà, la visione della “Città Santa” è la sua unica ed ultima speranza, il pellegrino viaggia spesso a piedi, trovando conforto in quei numerosi ospizi creati apposta per i suoi bisogni lungo la strada.
Il cammino è accompagnato da privilegi di ogni genere: esenzione dai pedaggi, elemosine per il sostentamento. D’altra parte il viandante è anche ritenuto un soggetto pericoloso: l’uso che fa del cammino, il modo di viaggiare, l’ampio spettro di opportunità e avventure che gli si possono presentare non sono soggetti a regole precise e sono difficilmente controllabili. Egli stesso può assegnarsi i ritmi, i tempi, la gestione degli spazi. La Chiesa tenta quindi di fornire raccomandazioni e consigli, in sintonia con la mentalità dell’epoca: viaggiare in gruppo, condurre vita morigerata. Sono le regole della strada, vera compagna di viaggio: la strada è la vita dell’homo viator, segno concreto e ideale dell’itinerario esistenziale, luogo di mistero, simbolo del non conosciuto, attraente e al tempo stesso temibile…
La strada e l’ospitalità
“Questi ospizi sono stati collocati nei posti dove ce n’era più bisogno.
Sono posti santi, case di Dio stesso, fatte per il conforto dei pellegrini,
il sostegno dei bisognosi, l’assistenza dei vivi e la salvazione dei morti…”
Guide du pèlerin de Saint-Jacques de Compostelle
Il viaggio richiede la presenza di luoghi di ospitalità per pellegrini e viandanti, soprattutto in corrispondenza di valichi, passi, fiumi, zone paludose. Sin dall’Alto Medioevo si è creata un’importante rete di ospitalità viaria, al punto che l’ubicazione degli ospizi consente oggi di ricostruire il tracciato delle antiche strade. I monasteri servono senza distinzione da luoghi di sosta, da ospizi, da ricovero temporaneo per malati. Il clero ha il dovere dell’hospitalitas, sia nelle chiese cittadine che nelle pievi rurali, soprattutto come assistenza ai malati e bisognosi: proprio per questo il modello dell’ospedale moderno, anche dal punto di vista architettonico, va ricercato nel monastero di allora.
Il pellegrino ha diritto all’ospitalità gratuita, ma è uso che i viandanti ricchi facciano cospicui lasciti ed elemosine. A partire dall’XI secolo anche i laici danno vita a fondazioni ospitaliere: nascono le taverne e le locande a buon mercato. La vita negli ospizi è monotona e non certo confortevole: raramente si distribuiscono pasti: spesso c’è solo una distribuzione di pane, talvolta un po’ di vino, poca carne e verdura di stagione. I letti sono disponibili solo negli ospizi più ricchi, ma è molto difficile che il viaggiatore possa ottenere un giaciglio tutto per sé. Negli altri casi si dorme per terra o sulla paglia. Tra i più famosi ordini ospitalieri, congregazioni religiose che si assumono l’onere dell’assistenza a pellegrini e viandanti, ci sono i Templari, i Gerosolimitani e i frati dell’Ordine del Tau di Altopascio. Dal XII secolo, col fiorire del commercio internazionale, l’ospitalità non è più solo per i pellegrini, ma anche per mercanti, corrieri e altri frequentatori della strada. I pellegrini che andavano in Spagna (Santiago de Compostela) incollavano una conchiglia sul cappello, i pellegrini, quelli che raggiungevano Gerusalemme vi applicavano una rama di palma, i palmieri mentre la maggioranza che si incamminava verso Roma fissava sul copricapo una placca con la raffigurazione dell’immagine di Cristo, i romei.
Il cibo
Comincio con una storia. Un testo agiografico del X secolo racconta di Oddone, abate di Cluny, in viaggio per un pellegrinaggio a Roma assieme a un giovane compagno, il monaco Giovanni, che sarà poi il suo biografo e ne scriverà la “Vita”. Appunto in un passo di questa leggiamo che, mentre i due stavano attraversando le Alpi sulla via del ritorno da Roma, si affiancò a loro un vecchio contadino – pauper, lo designa il testo – con sulle spalle un sacco di vivande per il viaggio. Quali vivande? Pane, aglio, cipolle e porri. Racconta Giovanni: “Il pio Oddone, appena vide quell’uomo, lo invitò a sedere sul suo cavallo e si mise in spalla il suo fetidissimo sacco. Io non riuscivo a sopportare quel fetore, e mi allontanai dalla compagnia rallentando il passo”. Ma l’abate lo richiamò e gli disse: “Ahimé, ciò che quest’uomo può mangiare a te provoca nausea fino a non sopportarne l’odore?” Con tali parole fece vergognare il discepolo “e così facendo – conclude Giovanni – curò il mio odorato”.
Al di là del finale edificante, l’episodio rende assai bene un’idea di fondo da cui vorrei partire per queste brevi considerazioni sul cibo del pellegrino: colui che per convenzione chiamiamo “pellegrino” è un’astrazione che bisogna in qualche modo riportare a una dimensione concreta. Il pellegrino non è altri che l’uomo, e gli uomini non sono tutti uguali – così almeno (direbbe Manzoni) andavano le – cose nel Medioevo. Non ci sono “uomini” astratti, ma signori, contadini, monaci, ricchi e poveri, potenti e deboli. E non tutti mangiano allo stesso modo. Il monaco Giovanni, abituato a mangiare bene, abituato a profumi e sapori raffinati, non può sopportare il fetore di aglio e cipolla che promana dal sacco dell’occasionale compagno di viaggio. Dunque il “pellegrino” in realtà non esiste: esiste il pellegrino contadino, esiste il pellegrino monaco, esiste il pellegrino signore, e ciascuno di essi mangia quello che il suo ceto sociale suggerisce o impone, in un mondo in cui l’alimentazione era il primo strumento per manifestare le differenze di classe, il prestigio, la ricchezza, il potere. E di questo parleremo la prossima volta.