C’era una volta… Così cominciano le favole.
Ma questa è una storia vera, è la storia delle nostre abitudini alimentari, dei cibi che coltiviamo, che abbiamo scoperto in terre lontane e che abbiamo fatto nostri. Una storia affascinante e intrigante che mescola i nostri saperi con quelli degli “altri”, che separa i gusti e le tradizioni, che accomuna e divide ma che è sempre e comunque lo specchio di una civiltà.
Il cibo sta nel bel mezzo della nostra storia così come al centro della nostra vita. Il cibo è la sola cosa di cui l’uomo non può fare a meno, e le sue vicende su questa terra hanno avuto sempre come primo obiettivo la ricerca del cibo. Attraverso il cibo e proprio in virtù di questa centralità, sono passati tutti gli interessi della vita e della storia umana: i modi di produrre, l’economia, i modi di distribuzione i modi di trasformazione, preparazione, conservazione, e i modi di pensare e di immaginare e cioè la cultura e la religione, i modi di esprimere anche l’inesprimibile bisogno di bello, l’estetica l’arte la letteratura. Il cibo si è così caricato di tutti i valori delle comunità umane, ne ha condensato l’identità rappresentandola e comunicandola nel rito conviviale, e mangiare insieme, che da sempre costituisse un aspetto essenziale della cultura degli uomini di per sé capace di conferire al cibo il valore di un linguaggio, di un formidabile strumento di comunicazione. Ma oggi vorrei raccontarvi del gusto, ciò che buono, ciò che piace, ma davvero
De gustibus non disputandum est?
Quante volte abbiamo sentito dire ”de gustibus non disputandum est” (sul guasto non si deve discutere) come dire ad ognuno piace ciò che piace!
Ed è vero se intendiamo il gusto come sapore cioè come sensazione individuale della lingua e del palato, soggettiva e incomunicabile.
Ma il gusto è anche sapere, valutazione di ciò che è buono o cattivo, una considerazione intellettiva prima che fisica: la mente diviene l’organo del piacere.
Leggiamo la voce gusto (goût) scritta da Voltaire per l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert:
«Il gusto, questo senso, questa capacità di distinguere i nostri alimenti, ha dato origine in tutte le lingue conosciute all’uso metaforico del termine gusto, per designare la capacità di avvertire le bellezze e le imperfezioni in tutte le arti […]. Ci sono grandi paesi in cui questo gusto è sconosciuto: sono quelli in cui la società non si è perfezionata, ove gli uomini e le donne non si riuniscono insieme, dove certe arti come la scultura e la pittura di esseri viventi sono vietate dalla religione. Dove la vita di società langue, lo spirito si isterilisce e le sue finezze si smussano, non c’è modo di educare il gusto». Pagina notissima ove ormai è definitivamente registrato, dopo circa due secoli, lo slittamento semantico della parola gusto per indicare non solo uno dei cinque sensi, ma una facoltà capace di valutare opere dell’ingegno, e anzitutto i prodotti artistici. Prima della modernità l’uso metaforico del termine gusto era ignoto: io cercherò di raccontarvi del gusto come piacere del cibo e della tavola nei suoi valori propri e metaforici nel mondo mediterraneo: anche qui valgono le considerazioni di Voltaire sullo stretto legame fra la fenomenologia del gusto e il vario sviluppo storico delle civiltà: sol che si pensi ai continui riferimenti simbolici che inseriscono il gusto del cibo nella storia dell’incivilimento e fanno dello stesso gusto un prodotto culturale, come ogni altra esperienza e attività dell’homo sapiens.
Gli inglesi chiamano il gusto flavour, per noi è l’aroma: quel complesso di sensazioni, sapori e odori, che ci lascia ogni volta piacevolmente sorpresi all’assaggio di una ricetta ben riuscita. Ma cosa si nasconde dietro queste sensazioni? Quali meccanismi, più o meno razionali, ci fanno accettare o rifiutare un cibo? E ancora, perché alcuni sapori che non ci piacciono sono apprezzati da altre persone, mentre amiamo alimenti che altri detestano?
Fermarsi a riflettere sui propri gusti apre una serie infinita di dubbi, domande, curiosità, alle quali non è facile trovare risposta. Provarci, significa indagare gli aspetti che riguardano la fisiologia dei sensi e considerare i fattori psicologici, sociali e culturali che li condizionano, in un percorso di scoperta comunque denso di interesse. Quando mangiamo attiviamo tutti i nostri sensi: in un tempo minimo essi ci danno molte informazioni sul cibo. Lo sapevate che il tempo che impiegano le papille gustative ad analizzare i cibi e’ di un decimo di secondo? E’ questo, infatti, il tempo impiegato dai sensori del gusto (appunto le papille gustative della lingua) per analizzare il cibo. Una valutazione fulminea, affidata a 500 mila recettori che permettono di distinguere 5 sensazioni fondamentali:
sulla punta della lingua il dolce
ai lati della lingua l’aspro e il salato
sul fondo della lingua l’amaro e l’umani (quest’ultimo scoperto di recente: un gusto umani è per esempio il glutammato monosodico presente nei dadi e nel Parmigiano Reggiano).
In contemporanea, le particelle volatili che si liberano dal cibo vanno a stimolare le cellule olfattive e la sensazione globale, legata al sapore e all’odore, costituisce l’aroma. Olfatto e gusto sono i cosiddetti “sensi chimici”, perché le sensazioni che producono sono legate direttamente alla composizione degli alimenti; anche gli altri sensi, però, giocano un ruolo importante nell’approccio con il cibo. Anche l’occhio vuole la sua parte: il colore, la forma e l’aspetto di un alimento possono influenzare la nostra percezione gustativa, come pure il rumore (pensiamo allo “scrocchiare” delle patatine) e il tatto. Ma c’è un altro aspetto che merita di essere sottolineato: l’olfatto è direttamente collegato alla parte del cervello più vecchia, nella quale hanno sede i centri della memoria e i circuiti che controllano le emozioni. Per questo è così facile associare un odore a un sentimento, a un ricordo, alla memoria di una situazione. Comprendiamo allora ciò che scrive Proust nelle bellissime pagine sulla madeleine… “ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario…E ad un tratto il ricordo m’è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray (giacché quel giorno non uscivo prima della messa), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio
D’altra parte, proprio perché raggiunge la parte più “emotiva” e meno analitica, del cervello, ci riesce più difficile parlare degli odori con linguaggio tecnico e descriverli con precisione. Non abbiamo difficoltà a indicare un colore con gli attributi che gli sono propri (rosso, blu, verde…), oppure a individuare precisamente le caratteristiche di un sapore (salato, amaro, dolce…), ma se dobbiamo descrivere un odore ricorriamo inevitabilmente ad associazioni, più poetiche certo, ma meno precise: ricorda la fragola, sente di erba appena tagliata, richiama la nocciola…
Dunque il piacere, in un cibo come in un vino, è una sensazione soggettiva, che risponde a dei canoni culturali acquisiti. Esiste tuttavia anche una bontà intrinseca, che si può riconoscere soltanto educando il palato. Quando ci si rapporta a un cibo, i sensi si attivano per comunicare se questo ci appare appetibile o sgradevole. Si tratta di percezioni soggettive, quasi istintive, che rispondono a parametri personali.
Si possono definire innate?
È quantomeno opinabile poiché le preferenze si formano in base ai “valori gastronomici” della società in cui si vive. Per questo motivo spesso cambiano da paese a paese: ciò che è buono in una parte del mondo, non necessariamente lo è in un’altra. Così come un italiano trova poco appetibili, quando non ripugnanti, alcuni cibi asiatici, in altre parti del mondo le tanto apprezzate rane fritte o le lumache in umido ispirano altrettanto disgusto. Pertanto si potrebbe più correttamente parlare di gusto “immediato” anziché “innato” in contrapposizione a quello più professionale del degustatore, che è un gusto “educato”.
Ma con quali modalità e con quali tempi si percepiscono le caratteristiche di una preparazione gastronomica?
Anche la persona meno attenta al cibo, se messa di fronte alle lasagne con la “crosticina” croccante, alla cotoletta con la doratura uniforme, al prosciutto crudo di colore uniforme, compreso tra il rosa e il rosso, orlato e inframmezzato di grasso bianco, comincia la degustazione ben predisposto. Gli occhi, cioè, comunicano che il cibo è di proprio gradimento.
L’olfatto, a sua volta, informa se il piatto ha odore gradevole o di bruciato, e se i prodotti tipici presentano il loro profumo caratteristico o hanno altri sentori non graditi.
Infine interviene il gusto che in genere conferma quanto anticipato dalla vista e dall’olfatto e fornisce ulteriori elementi di conoscenza (sapidità, acidità, dolcezza ecc.), così da poter assicurare se una determinata preparazione è gradita. Ma diversi consumatori, assaggiando gli stessi cibi, potrebbero dare valutazioni diverse. C’è chi preferisce la crosticina delle lasagne friabile e dura e chi tenera e appena accennata, la cotoletta alta e morbida o bassa e croccante, il prosciutto crudo “dolce” e tenero o sapido e consistente, e così via. Sicuramente tutti giudicherebbero tale un alimento palesemente difettoso; se però fosse quantomeno accettabile, ognuno esprimerebbe la propria preferenza confondendo ciò che piace con ciò che è buono.
Del resto se non si conoscono i parametri qualitativi che deve presentare un cibo o un vino, non è possibile valutarlo se non in termini di piacevolezza. È come mangiare per la prima volta un piatto di una cucina esotica. Si può solo dire se piace o meno in quanto non si hanno i mezzi per stabilire se è ben eseguito perché non si sa come debba essere realizzato. Solo degustando lo stesso piatto preparato da cuochi diversi, meglio se aiutati da una guida capace di spiegare quali caratteristiche debba avere (magari occorre ricercare più che il sapore la consistenza), si impara a conoscerlo e si diventa capaci di stabilire quando quella determinata ricetta è ben eseguita, quindi “buona”, a prescindere dal proprio indice di gradevolezza. Per valutare un cibo, soprattutto se non si conosce, occorre disporre di opportune chiavi di lettura per poterlo interpretare correttamente. Naturalmente, ciò è tanto più vero se occorre giudicare la gastronomia di un altro paese. Nella cucina giapponese è messa in risalto la consistenza più che il sapore. In Italia si utilizzano intingoli e soffritti per esaltare il gusto dei cibi, mentre la cucina nipponica non prevede queste pratiche. Il commensale degusta un piatto o un intero pasto apprezzandone sicuramente il sapore, ma soprattutto la diversità delle consistenze.
Per meglio capire l’importanza di questo aspetto si pensi agli spaghetti, piatto nazionale per definizione. Questi possono essere conditi con il più buono dei sughi, ma se sono scotti non si prendono nemmeno in considerazione. In fatto di pasta, cioè, la consistenza è al primo posto nella scala dei valori e quindi nei parametri di valutazione: meglio al dente con un filo d’olio che sontuosamente condita, ma troppo cotta. Nell’accostarsi a un piatto giapponese, inoltre, non si devono cercare le consistenze cui si è abituati; se il polpo si pretende morbidissimo, quello del sashimi potrà risultare più consistente, ma per volontà del cuoco che l’ha voluto così, magari per ampliare il contrasto con la morbidezza del pesce crudo che accompagna. In Cina è invece dato molto spazio alla “sonorità”. Se si pensa agli involtini primavera, alle verdure al dente appena saltate nello wok, ai gamberi fritti o all’anatra arrosto, ciascuna di queste preparazioni, masticandola, risulterà “sonora” perché croccante.
Pertanto è importante conoscere la “filosofia” di una cucina prima di cercare di interpretarla.
Ma che cos’è allora la “bontà” di un cibo?
Con questo concetto si vuole intendere il valore intrinseco costituito dalla qualità delle materie prime utilizzate e dalla corretta applicazioni delle tecniche culinarie (nel caso di un piatto) o delle tecniche di trasformazione e di conservazione (nel caso di un vino o di un prodotto tipico come un formaggio o un salume). Un prodotto tipico (formaggio o salume) tiene conto dell’alimentazione dell’animale che lo genera, dell’ambiente in cui questo vive, degli spazi di cui dispone ecc. Solo l’ingrediente che in base a parametri merceologico qualitativi viene considerato di prima qualità è “buono” e, quindi, può originare a sua volta una preparazione “buona”.
La fase della trasformazione può esaltare o svilire le caratteristiche dell’ingrediente base. Inoltre, la conservazione svolge un ruolo altrettanto importante perché ambienti non adatti possono compromettere la bontà di qualsiasi cibo o vino. Avere nozioni sulle caratteristiche che dovrebbe avere la materia prima, sulle tecniche di trasformazione, su come il prodotto debba conservarsi, consente di effettuare un’analisi compiuta. Ciò perché la corretta degustazione deve essere affiancata da necessarie conoscenze teoriche che consentono di fare considerazioni preliminari su un alimento prima ancora di assaggiarlo. Facciamo un esempio: il grasso di un salume, come nel caso della pancetta o del lardo, deve essere bianco. Pertanto se presentasse colore giallino risulterebbe evidente che non è un prodotto di qualità o è stato mal conservato. Odorandolo, non deve sapere di rancido ma, piuttosto, possedere odore ampio e caratteristico. A sua volta, un formaggio come la crescenza va odorato dopo averne strofinato la carta che lo ricopre in modo da scaldarlo; se si avverte allora sentore di lievito di birra significa che non è idoneo al consumo perché vecchio o mal conservato.
L’esperto, cioè, grazie alle sue conoscenze teoriche può proficuamente analizzare un prodotto e cominciare così a valutarlo prima ancora di portarlo alla bocca. Ciò vale anche per i piatti finiti: se fosse servita una cotoletta alla milanese con parte della superficie rigonfia o staccata, non si tratterebbe di puro inestetismo. Significherebbe, invece, che la cottura è avvenuta in modo troppo energico. L’evaporazione dei liquidi, cioè, è stata tanto forte e intensa da causare rotture o rigonfiamenti della copertura, oppure al momento della cottura la carne aveva una temperatura troppo bassa (per esempio, se estratta dal frigorifero fosse subito messa a cuocere). Assaggiando quella carne, molto probabilmente la si avvertirà asciutta in quanto povera di succhi e, conseguentemente, non morbida come dovrebbe essere. Pertanto, anche utilizzando materia prima di qualità, la cattiva conservazione di un cibo (nel caso dei prodotti tipici citati) o la cottura non compiuta correttamente (nel caso della carne) ha portato a un risultato deludente.
Già David Hume, attorno al 1750, nel suo saggio La regola del gusto, affermava che il gusto è relativo e si può educare perché è la sintesi tra la percezione fisica e la dimensione culturale in cui si determina. La conoscenza e l’esperienza influenzano fortemente il gusto, al punto che sapore e sapere hanno la stessa radice. “Gli animali si nutrono; l’uomo mangia; solo l’uomo di spirito sa mangiare…” così scriveva, quasi duecento anni fa, il gastronomo-filosofo Anthelme, nel suo celebre trattato “Fisiologia del Gusto”. Il gusto si può coltivare come si coltiva l’orecchio, senza pregiudizi, con spirito curioso, lentezza e soprattutto ironia.
Come dargli torto? Oggi più che mai, il “saper mangiare” è nella capacità di superare gli stereotipi e non cedere alla superficialità, per andare alle radici profonde del gusto e apprezzarne ogni sfumatura. E’ dalle radici profonde del tempo che vorrei cominciare a raccontarvi la storia dei cibi e della nostra cultura.