La parola deriva da “minuta”, pur riconducendo al vocabolo francese “menù”; pare che il menù individuale, o affisso alle porte dei celebri ristoranti parigini, sia apparso per la prima volta alla fine del ‘700. La nascita del menù come “oggetto” si fa risalire al giugno del 1810, e segna lo storico passaggio tra servizio “alla francese” e “servizio alla russa”. Nel sistema definito “alla francese” – usato ancora oggi nei pranzi a buffet – tutte le portate, sia pure divise in tre servizi, sono presentate contemporaneamente agli invitati e la scenografia è ad effetto. Il menù è però superfluo, perché le vivande sono visibili a tutti.
Nel sistema definito “alla russa” – adottato per la prima volta dal principe Borisovic Kurakin ambasciatore dello Zar Alessandro I presso Napoleone Bonaparte, in un pranzo offerto nel suo palazzo di Cliché a Parigi – le portate sono presentate e servite una per volta, da uno stuolo di valletti in una sequenza stabilita dall’anfitrione.
Il menù diventa necessario per informare i commensali sulla consistenza del pranzo. Questo tipo di menù ha avuto successo perché aggiungeva prestigio all’occasione conviviale. Prevedendo inoltre che fosse l’invitato stesso a servirsi autonomamente dal piatto di portata presentato dal cameriere. Questo elemento finale del servizio “alla russa” è stato occasione di discussione ed ha prodotto due varianti: il servizio “all’inglese” dove il cameriere serve l’ospite e il servizio “all’italiana” dove le porzioni preparate in cucina sono servite su un piatto talvolta ricoperto dalla “cloche”. I due metodi di servizio sono comunemente adottati ancora oggi. Da qui nacque la necessità di fornire ad ognuno dei commensali un cartoncino, stampato in molti esemplari, con l’elenco delle portate.
Il menù rappresenta la più valida testimonianza del convivio come specchio della società. La condivisione del pasto appartiene all’identità culturale di ogni popolo ed esprime le trasformazioni delle modalità storiche della cultura gastronomica. Si va dai menù dei Savoia a quelli dei Presidenti della Repubblica, da quelli scelti dai Papi nei viaggi ai menù dei personaggi illustri che hanno lasciato una traccia importante nel ventesimo secolo. Senza trascurare i menù dei grandi alberghi, dei Transatlantici italiani e dell’Alitalia e dei ristoranti e delle trattorie.
Documento significativo dal punto di vista gastronomico, il menù possiede anche un intrinseco valore artistico, espresso dagli stili e dalle arti decorative predominanti nelle varie epoche. Non a caso illustri artisti hanno celebrato la natura estetica di questo oggetto: da Guttuso a Moranti, da Nespolo a De Chirico, da Carrà a Manzù, in molti si sono impegnati ad illustrare graficamente il menù assegnandogli lo status di vera e propria opera d’arte.
Così nell’arte, nella filosofia, nella religione, insomma in ogni aspetto della nostra vita il “mangiare” il cibo riveste un ruolo di grande valore pur nella quotidianità. Già, il cibo come cultura!
Da Omero a Boccaccio, da Leonardo a Kant, da Tolstoj a Gadda, Neruda, Calvino: attraverso le testimonianze della letteratura antica, medioevale, rinascimentale, barocca sino ai più bei brani letterari italiani ed europei contemporanei l’evolversi delle forme storiche della cultura alimentare, usi e costumi degli uomini a tavola, piaceri e dispiaceri incontri e scontri hanno fatto del convivio un’immagine speculare della società.
Il cibo è talmente importante nella vita degli uomini che ha un ruolo fondamentale anche nella religione. Nel Nuovo Testamento, ad esempio, sono almeno quattro i momenti in cui l’insegnamento di Gesù si collega al cibo: Le nozze di Cana, quando Gesù trasforma l’acqua in vino; La moltiplicazione dei pani e dei pesci; L’ultima cena e La cena di Emmaus.
Dietro ai sapori, agli odori, si nascondono tantissimi significati; dietro al gusto di sedere a tavola, ma anche di stare dietro ai fornelli, esiste una trama fitta di simboli e linguaggi che costituiscono il variegato panorama della scienza culinaria.
Il nostro corpo, la nostra psicologia, l’educazione, la cultura, l’ambiente, la storia, sono elementi fondamentali per ripercorrere e capire l’itinerario del piacere, poiché condizionano non solo la preparazione e la presentazione del cibo, ma anche la percezione visiva, olfattiva e la scelta di alcuni sapori al posto di altri. Esistono poi elementi spesso ignorati ma non meno importanti quali il desiderio, la creatività, la voglia, l’immaginazione che trasformano i cibi e la loro preparazione in un vero e proprio linguaggio. Chi ama cucinare generalmente scopre, ricerca, studia, fa esperienza, agisce secondo le sue conoscenze, i suoi retaggi e cerca, grazie alla fantasia, di creare per assecondare la necessità di comunicare stati d’animo e passioni. Non dovremmo scandalizzarci dunque, quando sentiamo definire la culinaria un’arte.
La storia dell’alimentazione, dunque, è una storia ricca di sorprese, di civiltà alimentari che cambiano, un mondo di gusti, sapori e profumi ancora tutti da scoprire. Un mondo che possiede naturalmente la sua storia, i suoi usi e costumi, i suoi artisti, le sue leggende, tradizioni, e perché no, i suoi scienziati, filosofi, musicisti e poeti. Il cibo da elemento della natura diventa elemento della cultura in quanto inventa e trasforma il mondo. Se pensiamo per esempio alla nostra cultura del cibo, essa è fortemente influenzata da elementi esterni che, attraverso varie vicissitudini, abbiamo poi fatto nostri. Un piatto di spaghetti al pomodoro non è solo un cibo, ma è il simbolo dell’identità culturale di un paese. E’ l’unione tra la tecnologia produttiva di un alimento nata nella Sicilia Araba unita ad un prodotto americano importato in Europa dai conquistatori spagnoli. Il cibo è quindi cultura quando si produce perché l’uomo ambisce a creare il proprio cibo, il cibo è cultura quando si prepara perché una volta acquisiti i prodotti base della sua alimentazione, l’uomo li trasforma mediante la sua tecnologia, il cibo è cultura quando si consuma perché l’uomo lo sceglie con criteri legati sia alla dimensione nutrizionale, sia a valori simbolici. La civiltà umana si esprime in quello che produce e in quello che mangia e il gusto è un prodotto sociale. Per questo penso che la cultura del cibo sia fondamentale anche all’interno di una cultura d’impresa.
La cucina altro non è che un crogiuolo di altre identità. La nostra”tradizione” affonda le radici in un terreno fertile le radici degli alberi in realtà si biforcano fino a perdersi molto lontano dalla pianta, hanno percorsi quasi imprevedibili e portano a tanti punti differenti anche molto remoti. Quello che siamo dunque è il frutto di incontri, scambi e lotte, ma non è mai il risultato di una cosa singola che rimane invariata. L’identità è in realtà il trionfo della diversità.
Il nostro piatto di spaghetti dunque è un misto di culture che si sono sedimentate e adattate a un territorio e alle esigenze che esso comporta, un misto che ci parla di conquiste, avvicinamenti, scoperte, scontri, commerci, incontri, agricolture, saperi. La nostra gastronomia, infatti, è quanto di più rappresentativo di un’idea di identità mutevole, caleidoscopica e aperta allo scambio. È un insieme di profonde diversità tra regioni e regioni, tra territori e territori, tanto che è impossibile riuscire a definire una cucina italiana unica, almeno negli stessi termini in cui per esempio si parla di cucina francese, quella sì davvero nazionale poiché ha subìto in passato vere e proprie codificazioni tese a questo tipo di rappresentatività. Da noi una pasta fresca ripiena può cambiare tipologia, gusto, ripieno e metodologia di realizzazione anche percorrendo pochi chilometri sulla Pianura Padana: tutta la gastronomia tradizionale è in realtà rappresentazione di diversi territori, agricolture, culture, popolazioni. Del resto credo sia proprio questa varietà, dovuta alla conformazione del nostro paese e alla sua storia fatta di divisioni e invasioni, che ci rende così ricchi, invidiati, copiati e “assaggiati” dal resto del mondo.