Parigi – “Millenial sfortunati”, è il titolo di un articolo pubblicato sul’Economist di questa settimana. Sfortunati perché i nati a cavallo del millennio hanno dovuto vivere due crisi epocali: quella finanziaria del 2008 e quella di questi mesi, la pandemia dei coronavirus. Come reagiranno? Con apatia o assumendo atteggiamenti radicali?
“I giovani nati dal 2000 in poi non sono in grado di fare un discorso su questa situazione. O meglio di darne una interpretazione e offrire una soluzione, se continueranno ad adottare gli schemi di ragionamento che stiamo trasmettendo loro”, dice Luciano Mecacci, saggista e psicologo, già professore ordinario di Psicologia generale dell’Università di Firenze.
“Si dà prova di una miopia incredibile se si pretende che i giovani ci seguano su un percorso di impostazioni mentali durate secoli e che oggi risultano inadeguate”, aggiunge.
Il Covid 19 ha stravolto le nostre vite ormai da oltre due mesi. Che insegnamenti?
Siamo martellati da migliaia di messaggi, informazioni, appelli Ho l’impressione però che per capire la situazione e l’impatto economico e politico ci vorranno anni.
Di questa crisi cosa teme maggiormente?
Temo manifestazioni di intolleranza negli Stati Uniti e altrove, con le migliaia di persone che si ritroveranno senza lavoro, persone che appartengono per lo più alle fasce più deboli della popolazione. Temo rischi di sollevamenti popolari, con assalti ai negozi, saccheggi, violenze. Sono ipotesi che preoccupano anche chi si occupa di sicurezza, in Italia e Francia.
Si parla tanto di guerra, a mio avviso a torto: la guerra la conosciamo e possiamo calcolare quanti missili, soldati e materiale bellico possa servire. E si fa freddamente un calcolo della percentuale di soldati che possano morire in un determinato conflitto, con un determinato nemico, ecc. Qui si naviga nella nebbia. In questo caso tutto è diverso, si rischiano sollevamenti di massa che non hanno nulla a che fare con il nostro concetto di guerra.
Quale altra sfida ci pone il coronavirus?
Altro problema sono i giovani. E’ un problema di ordine psicologico. Non è stato finora messo in luce in modo adeguato perché mancano nuovi parametri interpretativi.
La mia generazione, e diciamo quella fino agli anni 60, ha vissuto con un mondo che non era cambiato: nonostante la rivoluzione francese, il Risorgimento, la rivoluzione russa, essa era rimasta all’interno di un certo scenario occidentale. Durante questo periodo l’Europa e gli Usa non hanno avuto guerre in casa. I giovani hanno ora un’altra appartenenza culturale, altri mezzi di informazioni, di scambi, di mobilità al di qua e al di là delle frontiere. Con la mondializzazione e internet hanno creato una specie di cyber-sfera dove tutto è per loro possibile anche quando non lo è, ma lo vivono come possibile. Tornano alle vecchie tradizioni solo quando scattano meccanismi rituali, come le feste familiari.
La popolazione giovanile ha ora un suo mondo non legato all’esperienza precedente. I nostri discorsi non li capiscono perché scaturiscono da un diverso mondo cognitivo e sociale.
Solo ora si stanno facendo ricerche, ma al momento non ve n’è alcuna che ci aiuti a capire come affrontare questa emergenza. L’impatto sociale del covid-19 non è paragonabile a una situazione di emergenza come l’abbaiamo conosciuta noi: guerre, carestie, epidemie geograficamente localizzate, terremoti, ecc. Non siamo attrezzati perché il nostro retaggio cognitivo non è al passo della nuova situazione.
Negli ultimi 20 anni non è stata lanciata nessuna ricerca per capire cosa sentono i giovani, come interpretano ora questa emergenza. O perlomeno le ricerche sono ancora premature, le faranno i giovani attuali fra una ventina d’anni con schemi mentali e strumenti nuovi. E’ un errore quello che fanno molti psicologi e antropologi di rifarsi ai parametri che hanno guidato la civiltà occidentale fino al alle soglie del terzo millennio. Già si sbaglia a chiedere a un giovane se ha paura del futuro: il loro concetto del futuro è diverso dal nostro, è un futuro dilatato ,sempre presente.
Ma se salta il computer?
I nativi digitali non temono come noi con un click tutto possa saltare. Sono nati e vivono nell’informatica. Anche quando vogliono leggere un libro prima pensano a quello elettronico e poi a quello cartaceo. Il mio non vuole essere un discorso di giudizio: è andata così e non penso che si possa tornare indietro. Un giovane senza telefonino diventa emarginato. Si comprerà sempre di più on line e non nei negozi.
Secondo lei si tratta di un salto epocale? .
Ci dobbiamo rendere conto che il mondo di ieri non è più concepibile. Come è avvenuto nell’800 a.C. con l’invenzione della scrittura. Che ha avuto a lungo avversari perché distruggeva una cultura orale che si basava sulla memoria. La scrittura è andata avanti e ci ha portato alle più importanti svolte della nostra civiltà. Con Internet i giovani vivono in un altro spazio-temporale. L’organizzazione della memoria è cambiata così come il linguaggio. Però i giovani hanno un cervello e la specie umana è creativa, e quindi è all’interno del loro proprio contesto che troveranno le capacità di andare avanti.
La scuola si sta adattando a questo nuovo contesto?
La scuola va cambiata: anche in questo campo non si possono riproporre gli stessi parametri. Per i ragazzi la maturità online non è un problema. Non deve essere considerato come un espediente passeggero dettato dall’emergenza coronavirus. Per loro l’orale, il faccia a faccia è un retaggio del passato. La lettura anche, per lo meno a scuola dove anche gli insegnanti sembrano disabituati ai libri.
Che futuro li attende?
Sono pessimista quando vedo i miei colleghi al di sopra dei 45 anni cercare l’acqua nel posto sbagliato, ma sono ottimista perché proprio questi giovani, quelli nati dal 2000 in poi, stanno già dando prova di creatività e inventiva.
Foto: Luciano Mecacci