I limiti “cerebrali” di chi legge poco

cervelloCorrevano i dimenticabili anni ’80 e noi, freschi studentelli del classico “Ludovio Ariosto” sotto la Kappa dell’ottimo preside Sandro (Chesi scritto appunto in modo marcatamente gerarchico), ci si interrogava sulla sbandierata superiorità delle materie umanistiche rispetto a quelle scientifiche. I nostri prof. un po’ decotti, un po’ démodé ci instillavano nella erigenda forma mentis il mantra del latinismo: le lingue morte contengono la logica del sapere matematico ma non viceversa. E così, troppo giovani per suggere il morente retaggio degli ultimi decenni ideologici (e pertanto idealistici, “formidabili” per Mario Capanna, oggi plurimantenuto di Stato con superbo vitalizio), nel bel mezzo di quella terra di mezzo che continua a perdurare (la regressione nel personalismo-carrierismo craxiano con qualche spruzzatina new age per dare l’impressione di una qualsivoglia domanda etica), nostra sponte, i più donchisciotteschi, ci si addentrava arturianamente nell’unico confronto dialettico ancora possibile. Sullo sfondo della sempiterna battaglia tra prassi e teoria. Chi l’avesse spuntata, avrebbe determinato la vittoria sociale della classe di appartenenza. Destra e sinistra cominciavano a diventare giustificazioni poltronaie; non ci restava che la divisione in stoici ed epicurei. Ama e fa ciò che vuoi, non più in senso teologico e agostiniano bensì in chiave menscevica e felliniana.

Si diventava neoclassici a nostra insaputa; forse per questo molti di noi, saturi di grecismi e desiderosi di rivincita davanti ai volti rassegnati dei maestri di fisica, hanno  attraversato le porte di Università super tecniche. Nel 2015 molti di questi binomi tutti occidentali che un tempo arrovellavano le nostre menti e infuocavano le nostre anime, paiono noiose e retoriche paturnie di attempati professionisti sul viale del tramonto. Viventi (e morenti) in fatiscenti abitazioni senza lo straccio di un computer che possa aprire la sembianza di una finestra sulla modernità. O almeno sulla contemporaneità. Il progresso scientifico su immanenza informatica ha ridotto quel gap tra materie a mo’ di presenza larvale, prefigurando scenari di progressiva riduzione tra spirito e materia, un po’ come sta facendo la fisica quantistica coi fenomeni presuntamente paranormali.

Basti pensare allo studio americano-canadese sull’utilizzo delle parti del cervello umano durante la lettura; sottoponendo alcuni volontari alla Risonanza magnetica funzionale, si è scoperto che leggere “buoni” romanzi attiva molte reti di neuroni, diverse a seconda del contenuto emotivo e visuo-spaziale. Perché abbiamo detto “buoni”? Perché è proprio la narrativa di qualità, dunque non la lettura di puro intrattenimento, che attiva la corteccia prefrontale, quella parte che nel corso evolutivo si è sviluppata maggiormente nel genere umano rispetto alle altre specie animali. Quella per intenderci responsabile delle “funzioni cognitive superiori”, come il pensiero astratto, la capacità di pensare il futuro, il distinguere il bene dal male e il chiedersi il perché delle cose.

La poesia invece, ad esempio, secondo recenti studi neurocognitivi, potrebbe provocare reazioni fisiologiche evidenti perché l’evoluzione non avrebbe ancora avuto il tempo di inventare uno specifico sistema neuronale dedicato alla ricezione dell’arte o della parola letta. Mentre la letteratura fantastica attiva specifiche aree del cervello, l’amigdala, correlata ad emozioni primitive. Insomma, non sarà granché ma ci restituisce il senso dei nostri dissidi interiori ai tempi del liceo. E scrive una pagina in più del profondo e infinito libro il cui limite è la convenzione dei termini e del linguaggio e della struttura lessicale.

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