Firenze – A poco più di un anno e mezzo dal suo avvio la riforma sanitaria toscana sta scontentando tutti. La Cgil ha aperto una vertenza vera e propria, denunciando la decurtazione dei posti letto, il taglio delle giornate di degenza, l’affollamento sempre più insopportabile dei pronto soccorso. In poche parole, secondo il sindacato, l’accorpamento delle Asl sta producendo verticalizzazione e penalizza il territorio, snaturando un principio invece fortemente asserito dalla riforma. Non ci stanno neanche medici e operatori, secondo cui l’accentramento decisionale ha prodotto numerose inefficienze, catene gerarchiche che non rispondono più, sistemi informatici continuamente in tilt perché nessuno è più responsabile di niente. Un altro anello messo a dura prova in questi mesi è il coordinamento e la programmazione fra azienda sanitaria e ospedale. La somma di questi cortocircuiti produce grandi difficoltà al cittadino che è spesso costretto a scegliere sempre di più la strada del privato. Un vero paradosso per chi, come la Toscana, ha fatto del servizio pubblico una scelta politica e culturale ben precisa. Ne parliamo con Federico Gelli, pisano, già vicepresidente della Giunta della squadra di Claudio Martini, attualmente responsabile nazionale PD della sanità.
La riforma sanitaria toscana a neanche due anni dalla partenza segna il passo scontentando un po’ tutti. Si è proceduto ad accorpamenti organizzativi, tagli delle strutture periferiche, ma non sono decollati servizi “cuscinetto” destinati a compensare questi processi. Lei che ne pensa?
“La Toscana in questo campo è una Regione all’avanguardia in innovazione e cambiamento. Non è un caso se a livello nazionale è al primo posto per livelli essenziali di assistenza e fra le prime regioni benchmark in Italia. Si può fare di meglio, certo, e la riforma non ha ancora avuto piena attuazione. Ci sono punti di difficoltà che devono essere recuperati con il tempo, come l’integrazione fra ospedale e territorio. Consideri che abbiamo creato una struttura unica nel panorama nazionale: ogni Asl oggi ha una platea di cittadini enorme, circa 1,3 milioni di persone”.
La Cgil parla di processo di “privatizzazione strisciante” per la grande difficoltà dei cittadini sul territorio ad ottenere e prenotare servizi pubblici, che spinge di fatto verso soluzioni individuali.
“E’ un’accusa assolutamente non vera. Forse il sindacato non ha idea come sia il rapporto pubblico privato in altre regioni italiane. In Toscana le strutture private non superano il 3 o 4% del totale, il rapporto più basso in assoluto in Italia. In Lombardia i privati sono circa il 40%, anche in Emilia Romagna la percentuale è molto alta, per non parlare del sud. Altro tema è quello dell’accesso. Se i cittadini toscani si rivolgono ai privati è per la diagnostica e la specialistica di tipo ordinario, per così dire. La specialistica di alto livello è completamente pubblica e recentemente l’assessore alla sanità Saccardi ha fatto interventi molto importanti per abbattere le liste d’attesa per un segmento sensibile come quello dei malati oncologici: mi riferisco allo sportello unico per l’assistenza a questo tipo di patologie”.
Perché non sono decollate strutture come le Case della salute dove un team di esperti multidisciplinari accoglie il cittadino, liberando ospedali e Asl da una pressione sempre più accentuata?
“Questo è rimasto uno degli elementi più problematici in ogni regione italiana. Sembra quasi più facile realizzare nuovi ospedali che dare vita a questi presidi territoriali. Si sommano varie difficoltà: quella dei medici di medicina generale a lavorare in équipe, spesso per un fatto generazionale, la difficoltà di trovare luoghi fisici sul territorio, ad esempio. Però la strada è quella. Dobbiamo creare hospice, strutture sociosanitarie come gli ospedali di comunità, che garantiscono continuità assistenziale e infermieristica, insomma una fitta rete alternativa all’ospedalizzazione vera e propria, che ha costi troppo alti”.
La Toscana (e il PD) ha scelto la sanità pubblica come valore da perseguire ad ogni costo. Negli ultimi anni però questa voce, visti i tagli dei trasferimenti finanziari, sta assorbendo quasi il 90% del bilancio regionale. Quanto può durare questo trend che penalizza tutte le altre voci degli investimenti produttivi?
“La percentuale esatta è intorno al 75%, non quella che dice lei, ma ritengo che la qualità del sistema sanitario sia lo specchio di una democrazia. Quella sanitaria non è una spesa, ma un investimento. Consideri che in termini di ricerca e innovazione le attività collaterali sono moltissime e molto qualificate. In Toscana imprese come la Menarini, Illy, Biogen vivono grazie all’indotto del sistema pubblico. Il moltiplicatore della Sanità è enorme e molto qualificante in termini produttivi”.
La Riforma non parla esplicitamente di risparmi e non ha mai fatto il conto di quanto si abbatteranno i costi nel medio periodo. Quali nodi secondo lei deve aggredire un’efficace spending review nella sanità toscana?
“Negli ultimi anni la Regione ha fatto moltissimo in questa direzione. Centrale unica di acquisti, semplificazione e eliminazione dei “doppioni” istituzionali: questi sono tutti risparmi che misureremo con il tempo. C’è ancora un aspetto che si può e si deve migliorare: l’innovazione tecnologica. E non mi riferisco solo ai sistemi informatici. Forse su questo abbiamo perso qualche colpo ed è urgente recuperare il tempo perduto perché senza questo supporto difficilmente si ottiene l’efficienza a cui aspiriamo.”