La digitalizzazione e l’innovazione dei processi e dei servizi identificano uno dei principali assi su cui si sviluppa l’ambiziosa strategia del governo per l’ammodernamento del Paese e rappresentano un fattore determinante della sua trasformazione.
Si attendono, dunque, nei prossimi mesi gli effetti positivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato definitivamente dalla Commissione Europea il 13 luglio scorso, che dedica il 27% delle risorse totali proprio alla transizione digitale.
Nell’edizione 2020 del Digital Economy and Society Index (DESI), lo strumento che la Commissione utilizza per monitorare le azioni strategiche sul tema del digitale attuate dagli stati membri dell’UE, l’Italia parte da una posizione di svantaggio collocandosi in 25esima posizione, davanti solo a Grecia, Romania e Bulgaria. Più nel dettaglio, si posiziona al 26esimo posto per l’utilizzo di internet (il 17% degli individui residenti in Italia non ne ha mai fatto uso), al 22esimo posto per l’integrazione della tecnologia digitale (solo il 10% delle PMI vende online, rispetto alla media dell’UE pari al 18%) e in 19esima posizione per i servizi pubblici digitali (solo il 32% degli utenti italiani online usufruisce dei servizi di e-government, un valore nettamente inferiore alla media europea pari al 67%).
Considerando il mercato globale del lavoro, promuovere gli investimenti in tecnologie, infrastrutture e processi digitali nel sistema produttivo e nei servizi pubblici, è un’azione imprescindibile per migliorare la competitività delle imprese italiane. Di conseguenza, le conoscenze scientifiche, tecnologiche e soprattutto le competenze digitali dei cittadini rivestono un ruolo decisivo in questo processo di sviluppo; occorre ampliarle e rafforzarle.
Tuttavia, l’obiettivo fissato da Italia Digitale 2026 di colmare il gap di competenze digitali, con almeno il 70% della popolazione che sia digitalmente abile, appare ancora molto lontano. È quanto emerge dal “Rapporto SDGs 2021. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia.”, diffuso dall’Istat lo scorso 9 agosto, secondo il quale, per le competenze digitali, l’Italia mostra ancora un considerevole ritardo rispetto all’Unione Europea. Nel 2019, la quota di popolazione dai 16 ai 74 anni che possiede competenze digitali almeno di base è del 41,5% (56% per l’UE), con quote fortemente differenziate per genere: si distingue il 45% tra gli uomini e il 38% tra le donne. La situazione si aggrava anche con l’età: tra gli individui dai 60 ai 64 anni, solo uno su quattro possiede tali abilità e la quota scende al 14,3% tra gli anziani dai 65 ai 74 anni. Particolarmente critico è il dato che riguardano il Sud del Paese: solo una persona su tre, dai 16 ai 74 anni, possiede delle competenze digitali almeno di base.
Ancora una volta, gli effetti delle misure di contenimento sociale imposti dalla crisi sanitaria, hanno avuto un impatto importante nel rallentamento della formazione rispetto alle previsioni. L’aggiornamento continuo delle conoscenze e delle competenze è stato, infatti, fortemente penalizzato dalla mobilità ridotta e dalle chiusure di attività e scuole; le occasioni di formazione si sono ridotte in maniera significativa e non tutte sono state immediatamente convertite in altre forme di apprendimento a distanza. Nel rapporto SDGs si legge che tra gli individui di 25 e 64 anni, coloro che hanno svolto almeno un’attività formativa nelle ultime quattro settimane, nel 2020, sono stati il 7,2% rispetto all’8,1% del 2019, con un calo maggiore nelle zone settentrionali: nel Nord Ovest e nel Nord Est, rispettivamente, la quota è scesa al 7,7% rispetto al 9,1% del 2019 e all’8,5% rispetto al 10,2%. In generale, i più coinvolti nelle attività di apprendimento continuano ad essere i giovani tra 25 e 34 anni (14,6%), le donne (7,4%) e i più istruiti (16,9%).
Le competenze digitali non possono più essere considerate come abilità che devono possedere solo specifiche figure professionali; al contrario, questo know-how è essenziale per svolgere una vasta gamma di professioni e risulta necessario per la quasi totalità dei laureati.
L’analisi della domanda di competenze digitali nelle imprese effettuata da Unioncamere e ANPAL evidenzia che, nel 2020, le skill più richieste dalle imprese (oltre a quelle specialistiche legate alla singola professione), in ordine di importanza, sono state: il possesso di competenze digitali di base insieme alla capacità di gestire e produrre strumenti di comunicazione visiva e multimediale (più di 1,9 milioni di profili richiesti, pari al 60,4% delle entrate complessive), la capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici per organizzare e valutare informazioni qualitative e quantitative (1,6 milioni di profili richiesti, pari al 51,5% del totale) ed infine la capacità di gestire soluzioni innovative applicando tecnologie digitali robotiche, Big Data Analytics ed Internet Of Things ai processi aziendali, in linea con quanto previsto nel “Pacchetto Industria 4.0” (oltre 1 milione e 177 mila profili richiesti, corrispondenti al 36,3% delle entrate totali).
Per quanto riguarda la richiesta per ripartizione territoriale, il Nord Ovest esprime un’esigenza maggiore rispetto alle altre aree del Paese, in particolare per le competenze digitali (necessità pari al 62,8% contro il 60,4% delle media dell’Italia) e per la capacità di utilizzare linguaggi e metodi matematici e informatici (necessità pari al 53,2% contro il 51,5% delle media delle quattro aree). Invece, le capacità di applicare tecnologie 4.0 per innovare i processi sono maggiormente richieste dalle regioni del Sud e delle Isole (necessità pari al 39,1% contro il 36,3% dell’Italia).
Le risposte fornite nell’indagine suggeriscono che le competenze digitali sono ritenute fortemente importanti per le professioni a più elevata specializzazione, che includono i dirigenti, le professioni intellettuali, scientifiche specialistiche e tecniche (come per esempio analisti e progettisti di software, progettisti e amministratori di sistemi, ingegneri energetici e meccanici, ingegneri elettronici e telecomunicazioni, tecnici programmatori, tecnici esperti in applicazioni) e gli impiegati (addetti all’immissione dati e alla contabilità); si riscontrano valori elevati anche per alcune figure di operai specializzati (installatori, manutentori e riparatori di apparecchiature informatiche e manutentori e riparatori apparati elettronici industriali e di misura).
Le imprese italiane sostengono che la difficoltà di reperimento di profili professionali con competenze digitali è ancora una dura realtà; questa problematica, nel 2020, ha riguardato quasi una figura su tre sul totale delle entrate programmate. Si nota che al crescere della dimensione aziendale, diminuisce la difficoltà di reperimento, ossia essa risulta essere più elevata per le micro imprese e più bassa per le grandi. Alcune tra le figure professionali elencate in precedenza risultano tra le più difficili da reperire nel mercato del lavoro, in particolare si collocano al primo posto i tecnici programmatori (è difficile da reperire il 67,8% dei profili con elevata competenza in possesso), seguiti da analisti e progettisti di software (65%), disegnatori industriali e agenti immobiliari (63,6%), specialisti in contabilità e problemi finanziari (59,9%). I titoli di laurea più richiesti sono ingegneria elettronica e dell’informazione, scienze matematiche fisiche e informatiche, psicologia e ingegneria industriale.
Le più alte percentuali di difficoltà di reperimento si concentrano soprattutto al Nord Est, in particolare in Friuli Venezia Giulia (41%), Trentino Alto Adige (40,6%) ed Emilia Romagna (40,5%), seguite dalle regioni del Nord Ovest come la Lombardia (37,4%) ed il Piemonte (39,2%). Al Centro le imprese delle Marche (39,2%) e dell’Umbria (42,5%) segnalano maggiori difficoltà di reperimento rispetto al Lazio (31,8%). Per il Sud e le isole sono significative le difficoltà riscontrate dall’Abruzzo (37,5%) e dalla Calabria (33,2%).
Per focalizzare le dimensioni della platea a disposizione delle imprese, si ritorna ai dati del Rapporto SDGs 2021. Per quanto riguarda l’istruzione terziaria, si evince che in Italia, complessivamente, nel 2020 il 27,8% dei giovani dai 30 ai 34 anni possiede una laurea o un titolo terziario (il 34,3% delle donne e il 21,4% degli uomini), una quota che si è stabilizzata negli ultimi due anni interrompendo la fase di crescita degli anni precedenti, ma che rimane tra le più basse d’Europa; l’UE ha, infatti, già superato l’obiettivo del 40% di individui in possesso di un titolo di studio terziario. Le differenze a livello territoriale sono aumentate nel corso degli anni: il Centro detiene la quota più elevata, pari al 32%, seguito dal Nord con il 31,3%, mentre nel Sud e nelle isole il valore scende al 21,8% e al 20,1% rispettivamente.
L’Italia si colloca sotto la media europea di circa 4 punti per mille anche per le lauree in discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), con il 15,1 per mille di individui dai 20 ai 29 anni che conseguono il titolo in questi indirizzi (dato aggiornato al 2018). La quota di laureati in discipline STEM appare poco variabile sul territorio, mentre si registra un divario di genere in crescita negli ultimi anni: gli uomini continuano ad essere più numerosi rispetto alle donne.
Infine, si riporta il dato che riguarda l’abbandono degli studi, leggermente inferiore rispetto all’anno precedente ma più elevato del 10% rispetto al target europeo: nel 2020 la quota dei giovani dai 18 ai 24 anni che escono dal sistema di istruzione e formazione senza aver conseguito un diploma o una qualifica è pari al 13,1% (si parla di 543 mila giovani); un fatto che coinvolge maggiormente la componente maschile (15,6%).