Hong Kong e minoranze: pioggia di critiche sulla Cina

Parigi – Pechino è riuscita a far adottare a Hong Kong la contestata legge sulla sicurezza nazionale, il cui obiettivo, secondo gli oppositori, è solo quello di annientare ogni dissidenza. Invano le migliaia di giovani sono scesi nei mesi scorsi per strada per cercare di garantire all’ex colonia britannica un futuro democratico.

Calpestando così la semi autonomia accordata fino al 2047 a Hong Kong al momento del suo passaggio sotto sovranità di Pechino, i parlamentari hanno votato all’unanimità sotto stretta sorveglianza cinese una legge che offre ogni mezzo di repressione contro l’opposizione o chiunque possa essere sospettato di separatismo, sovversione, terrorismo o collusione con forze straniere.

Il testo è stato votato rapidamente oggi dopo una procedura opaca di alcune settimane per garantirne l’entrata in vigore il 1° luglio, data anniversario della retrocessione della piazza finanziaria britannica alla Cina.

La legge sulla sicurezza nazionale imposto da Pechino e di chiara ispirazione marxista leninista mal si inserisce nel sistema giuridico della città di ispirazione liberale ereditato dalla Gran Bretagna.  L’effetto dissuasivo è stato immediato sulla dissidenza: i leader del seguitissimo movimento degli ombrelli  hanno già deciso di sciogliere la loro formazione e chiuso i loro siti sulle reti sociali per paura di immediate rappresaglie.

Quale potrà essere il futuro dei 7,5 milioni di abitanti  di questa città da anni impregnata di altri valori da quelli della Cina di Pechino e quali effetti avrà questa svolta sul dinamismo della sua piazza finanziaria, una delle più importanti del mondo?  Di fronte alla scarsa solidarietà dimostrata finora dal mondo occidentale c’è da temere il peggio. E c’è già chi pensa di trarne vantaggio, come la borsa di Tokyo che già sembrerebbe interessata ad approfittare delle noie di Hong Kong.

A destare preoccupazione per i diritti umani in Cina non vi è comunque solo Hong Kong. Preoccupa infatti anche il trattamento degli Uiguri, la popolazione musulmana sunnita che vive nello Xinjang, una immensa regione semidesertica del nord est del paese in passato teatro di attentati attribuiti a islamisti. La repressione non si è fatta attendere e gli Uiguri sono sottoposti, soprattutto nella capitale Urumqi, a una sorveglianza da campo di concentramento a cielo aperto.

Tutta la più moderna tecnologia – dal riconoscimento facciale al controllo capillare nelle case – è stata messa in atto per impedire ogni forma di libertà. Un recente documentario della TV Arte sulla città  faceva venire i brividi perché mostrava come grazie alle nuove tecnologie sia insediare un regime repressivo. Senza contare il milione di  Uiguri rinchiusi in un lager vero e proprio, denominato  campo di riueducazione politica. Ora, secondo un rapporto della Jamestown Foundation, la Cina  starebbe anche costringendo la popolazione musulmana a un controllo delle nascite che sa di pulizia etnica.

Grazie a sterilizzazioni forzate, sotto la minaccia di essere mandati nel lager, il numero delle nascite sarebbe drasticamente diminuito dal 2016. La Cina, scrive nel rapporto il ricercatore tedesco Adrian Zenz, sembra voler utilizzare il controllo delle nascite degli Uiguri  nel quadro di una più vasta strategia di dominazione etno-razziale.

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