Le elezioni presidenziali francesi rappresentano un passaggio politico davvero cruciale e strategico nel senso che avvengono in un momento storico delicatissimo.
Le tensioni in Europa sono ormai arrivate a un livello di guardia molto pericoloso. Le cause sono molteplici e le alternative di fronte a noi sono chiare ma le soluzioni sono assai complesse. Tuttavia siamo di fronte esattamente a una scelta per certi versi obbligata: o riusciamo a fare un salto di qualità nel processo di integrazione europea, anche attraverso una democratizzazione dei suoi istituti oppure le conseguenze possono essere assai pesanti per tutti.
C’è spazio sia per l’ottimismo (nessuno si può permettere di pagare i prezzi della fine dell’Europa sotto forma di una crisi dell’Euro) ma anche per il pessimismo.
Non vi è dubbio che la chiave di volta della situazione sta nella volontà tedesca di intraprendere con convinzione la strada di una cessione di sovranità ad un livello superiore a quello dei singoli stati per quello che riguarda in particolare la politica economica. Le questioni cruciali (ruolo della Banca europea, nuovi strumenti finanziari di investimento ecc) non si risolvono senza superare lo stallo che la posizione tedesca ha indotto nella politica europea.
Tutto sommato anche l’attuale “Fiscal compact” e le sue misure di restrizione e di austerity, non sono altro che il frutto, l’immagine, dello stallo a cui è arrivato il dibattito tedesco: dietro al rigore che viene richiesto ai paesi poco virtuosi e all’assenza di reali disponibilità a rilanciare misure per la crescita sta l’indecisione della Germania rispetto al futuro dell’Europa e al suo ruolo nel mondo. La tentazione di fare a meno dell’Europa e, in una visione rozzamente semplificata, non voler pagare per i debiti degli altri, nasconde una tendenza tipica della storia tedesca, quella di pensare di poter fare da soli, di poter, in un certo senso “sfidare” il mondo. In fin dei conti siamo ancora dentro l’esortazione del grande Thomas Mann che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale chiedeva agli studenti tedeschi di lavorare “non per una Europa tedesca ma per una Germania europea”, una frase che racchiude una triste saggezza sulle potenzialità e i rischi della cultura politica tedesca.
Le elezioni presidenziali francesi portano con sé queste stesse ambiguità. Non è un caso che l’Economist di questa settimana pubblichi un editoriale nel quale si pronuncia a favore di Sarkozy non per una convinta adesione alle sue politiche ma per fermare Hollande, considerato, in definitiva, il peggiore dei due mali. Da un lato la vittoria di Hollande viene auspicata per quanto riguarda il superamento, la rinegoziazione delle condizioni del “Fiscal compact”, dell’austerity europea che stanno creando sempre più problemi (ultima l’Olanda) senza che vi siano all’orizzonte prospettive plausibili di ripresa. Dall’altro viene temuta in quanto il partito del presidente, il PS francese è portatore di una cultura politica di difesa ad oltranza del modello di spesa pubblica attuale, essendo quindi assai ambigua nei confronti dell’Europa. Senza comunque dimenticare che ben oltre un terzo dei francesi hanno votato per formazioni politiche apertamente antieuropeiste.
Sappiamo che lo stesso PS francese ha al proprio interno una fortissima corrente antieuropeista o meglio una posizione politica che privilegia la tenuta del modello francese, le sue compatibilità nazionali, rispetto ad una visione europea. Il candidato più plausibile per la carica di primo ministro in caso di vittoria di Hollande e dopo il suicidio (omicidio?) politico di Strauss-Khan è quel Laurent Fabius che è stato tra i principali sostenitori del no alla ratifica della Costituzione europea. Dietro l’incapacità di Sarkozy nel riformare il proprio sistema dei conti pubblici, in un modo analogo a quello che Monti sta facendo per l’Italia sta certamente la sua ambiguità ma anche una strenua opposizione dei socialisti a qualsiasi ipotesi di tagli e di riduzione della stato sociale francese così com’è.
Le parole d’ordine di Hollande: contro l’austerity europea, per un nuovo capitalismo nel quale la finanza è imbrigliata dal potere politico e per un sostegno all’occupazione giovanile temo che siano più un diversivo retorico rispetto al tema cruciale di cosa anche la Francia intende fare dell’Europa, piuttosto che un programma realistico. A me sembra evidente che qualcosa veramente di sinistra Hollande dovrebbe dirlo non tanto rimandando a una “riforma del capitalismo” ma esplicitando un impegno europeista fuori dalla ambiguità che crei le condizioni per un salto di qualità nella formazione di una vera comunità europea.
Su questo non devono esserci dubbi: se la dimensione europea sfuma o viene lasciata sullo sfondo al fine di tenere insieme anime molto diverse tra di loro all’interno della sua coalizione, questa stessa questione tornerà a porsi ben presto sul tavolo del nuovo presidente.
In questi giorni le dimissioni di Junker, avvenute denunciando le interferenze tedesche e francesi, dimostrano una volta di più la crucialità dell’asse franco tedesco rispetto al quale l’iniziativa di Monti rappresenta un utile tentativo di superamento.
Auspicare, come auspico, la vittoria di Hollande significa per me sperare che le forze di sinistra e di centro sinistra europee assumano sino in fondo la prospettiva europea come l’unica in grado di affrontare anche i problemi nazionali, non di assumere una ottica nazionale dalla quale tentare la soluzione dei problemi europei. Da questo secondo punto di vista per l’Europa non c’è futuro e non vi sarà futuro nemmeno per i suoi singoli stati, come è già ora evidente. Per usare la retorica di Hollande, rovesciata, solo con una Europa rafforzata possiamo pensare di “riformare il capitalismo” non viceversa.
Per tutte queste ragioni le presidenziali francesi saranno decisive anche per la sinistra europea: se la vittoria di Hollande non porterà con sé un rinnovato impegno europeista della sinistra del continente, in modo forte, convinto ed unitario, rischiamo di ritrovarci senza una sinistra credibile anche all’interno dei singoli stati nazionali. Solo comprendendo questo ormai intimo legame, la vittoria di Hollande potrà aprire una fase nuova per l’Europa e per la sinistra europea.