Un saggio agile veloce, accurato, e che risponde soprattutto a una delle domande lasciate sempre senza risposta dagli apparati statali, di tutti gli Stati: quanto pesa la fabbrica delle armi sul Pil di una nazione? Perché è così fondamentale per gli Stati avere una grande, luccicante e credibile capacità di disporre e vendere armamenti bellici e non? A cosa si deve la volontà di gettare immense risorse nella ricerca d armi sempre più letali e sofisticate?
Domande a cui il saggio “Crisi globale e affari di piombo” della giornalista Futura D’Aprile risponde con puntualità e semplicità, avvalendosi di dati e di una ricerca puntigliosa, che inchioda alle proprie responsabilità intere classi politiche di questo Paese. Il libro, che reca come sottotitolo “Politica e industrie italiane nel mercato internazionale delle armi da guerra”, vede l’introduzione di Alex Zanotelli, consta di 122 pagine, è stato pubblicato da Edizioni Seb 27, e riesce a configurare la complessa rete di motivi, relazioni, opportunità politiche che avvolge la fabbrica delle armi da guerra italiane. Futura D’Aprile è una giovane giornalista che si occupa di affari internazionali, principalmente di conflitti e società civile in Medio oriente, di questione curda e di export di armi. Laureata in Scienze della comunicazione all’Università di Perugia e in Giornalismo alla Sapienza di Roma. Ha lavorato come redattrice per “The Post Internazionale” e pubblicato reportage per “Altraeconomia”. Ha scritto degli italiani che hanno combattuto in Siria al fianco dei curdi, di Kurdistan turco e di Palestina. Collabora con i quotidiani “Linkiesta”, “Il Fatto quotidiano online” e “Domani”.
Il fulcro del saggio è costituito, dati alla mano, da due cocenti verità: da un lato, che l’industria bellica non entra mai in crisi, avendo in se stessa, come sottolinea l’autrice, la spinta per autoalimentarsi creando la temperie per il persistere di quelle stesse condizioni di insicurezza e instabilità geopolitica che la rendono vitale; dall’altro, il godere di un forte sostegno statale che, considerando strategico il settore, tutela il settore dalla volatilità del mercato. Una logica che non è sostenuta neppure dai numeri “economici”, come rivelano i Rapporti dell’AIAD i cui dati sono inseriti nel libro, mentre, altro fondamentale snodo messo in luce dal libro, il fatto che il 70% della produzione è diretto verso l’export.
“Le notizie su guerre, conflitti, migrazioni e Stati autoritari che violano i diritti umani sono all’ordine del giorno, ma molto spesso non viene fatta menzione delle responsabilità del nostro paese o degli altri Stati democratici – dice la giornalista – Il mio interesse verso il settore della difesa nasce proprio da questa domanda: noi, come Italia e come paese occidentale e democratico, cosa facciamo? Quanto il nostro export bellico contribuisce all’instabilità in aree del mondo che sembrano così lontane ma le cui vicende hanno poi degli effetti diretti anche sulla nostra vita? Quanto la vendita di armi alimenta per esempio il fenomeno migratorio? Queste sono le domande a cui cerco di rispondere nel mio lavoro giornalistico e anche in questo libro, che nasce dietro la spinta della casa editrice Edizioni Seb27. La loro richiesta è nata dal bisogno di fare chiarezza su un argomento vasto e complesso di cui si parla giornalmente – soprattutto con lo scoppio della guerra in Ucraina – ma che resta estraneo alla maggioranza del pubblico. Da qui la scelta di realizzare un primo capitolo più didascalico in cui sono spiegate anche le differenze tra le diverse categorie di armi e i prodotti realizzati dalle aziende più importanti attive in Italia. Nei capitoli successivi invece ci si concentra sul rapporto tra il mondo dell’industria della difesa e la politica, su quali sono le leggi che regolano l’export bellico a livello nazionale, europeo ed internazionale, per poi chiudere con il tema che mi è più caro: quello delle esportazioni e delle loro conseguenze”.
Il suo saggio sfata molti luoghi comuni, fra cui la presunta impossibilità di rinunciare da parte degli Stati a questo settore strategico pena la perdita di una parte importante di Pil. Quali sono i veri numeri e qual è il reale peso economico?
“Il comparto della difesa è presentato dai governi come strategico per le sorti del paese, ma i numeri dicono ben altro. Secondo il rapporto presentato a dicembre 2021 – realizzato dalla Federazione italiana delle aziende italiane per l’aerospazio la difesa e la sicurezza e da Prometeia – nel 2019 il settore difesa ha generato 15 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana, di cui 5,1 miliardi di contributo diretto delle attività delle imprese e 9,9 miliardi di contributo indiretto e indotto. Un dato che corrisponde però allo 0,9 per cento del Pil e non alle percentuali che ci si aspetterebbe alla luce dei discorsi del governo. L’industria della difesa, quindi, non è così rilevante in termini assoluti come si è indotti a credere, dato che costituisce meno dell’1 per cento del prodotto interno lordo, meno dello 0,7 per cento dell’export e meno dello 0,5 per cento in termini di occupati. Inoltre la produzione italiana della difesa è destinata per il 70 per cento al mercato estero, tanto che Roma si è posizionata sesta per valore cumulato tramite l’export di strumenti e tecnologie per la difesa nel periodo 2009-2018 a livello mondiale.
Qual è il ruolo della politica nel sistema “armi”?
“La politica sostiene l’industria delle armi tramite finanziamenti che potremmo definire indiretti, cioè tramite fondi dedicati al ministero della Difesa e che in parte sono utilizzati per l’acquisto di armi e armamenti o per il loro ammodernamento, il che va a vantaggio delle aziende attive in questo settore. Ma il contributo della politica non si ferma qui. Le due maggiori imprese italiane della difesa, Leonardo e Fincantieri, sono a partecipazione statale e il governo può essere coinvolto nella vendita di armamenti verso paesi terzi tramite il modello Government to government, strumento utile per promuovere ancora di più l’industria bellica nazionale. D’altronde proprio il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha firmato nel 2021 la Direttiva per la politica industriale della difesa, un documento che punta al rafforzamento del legame tra il ministero della Difesa e dello Sviluppo economico e l’industria italiana della difesa. In questo modo si punta a tutelare il settore bellico nazionale e a sviluppare in via prioritaria le capacità delle forze armate italiane. Il legame quindi è molto stretto e conto poco il colore politico del governo in carica.
In cosa consiste il “prestigio” del fabbricare armi per un Paese?
“Fabbricare ma soprattutto vendere all’estero armi e armamenti serve a un Paese per intessere la propria rete di relazioni e per attestare il proprio valore in un settore industriale dall’alto valore strategico, quantomeno nella visione attuale dei governi mondiali. Esportare un’arma vuol dire avere rapporti anche politici, non solo economici, di lunga durata con un altro paese, a cui devono essere forniti solitamente anche addestramento, manutenzione e altri servizi che rendono imprescindibile il mantenimento di buone relazioni. Inoltre, raggiungere alti livelli nella produzione bellica permette alle singole aziende di attestarsi in un determinato settore diventando un punto di riferimento e venendo così coinvolte in progetti internazionali, con un ritorno in termini di prestigio anche per il governo.
Come funziona, se esiste, la concorrenza fra le fabbriche d’armi dei vari Paesi?
Possiamo parlare di concorrenza su due livelli: nella produzione e nell’esportazione. Per quanto riguarda il primo ambito, ogni paese punta al raggiungimento di alti livelli qualitativi nella produzione di materiale bellico, così da avere un ritorno sul piano internazionale, il che genera competitività tra le industrie dei singoli paesi e tra i loro governi. Paradossalmente questa dinamica si sviluppa anche in ambito europeo nonostante i tentativi di raggiungere l’autonomia strategica e di armonizzare i programmi industriali per evitare che più Stati membri portino avanti progetti simili e in competizione tra di loro. Sul piano dell’export, invece, succede spesso che un governo giustifichi la scelta di esportare materiale militare verso paesi che non rispettano i diritti umani o che sono coinvolti in conflitti perché altrimenti sarà qualcun altro a farlo, a discapito quindi delle aziende e degli interessi nazionali. Anche in questo caso è importante sottolineare che tale problema si verifica persino in Europa, nonostante l’esistenza di una Posizione comune che dovrebbe essere applicata in egual misura dagli Stati membri, rendendo quindi più omogenee le scelte relative all’export. La realtà però è ben diversa e la competitività continua ad essere utilizzata come giustificazione per non rifiutare le autorizzazioni per l’esportazione verso Paesi a cui sarebbe meglio non vendere materiale militare”.