Oltre al sollievo per il rilascio, con il contagocce, di altri ostaggi, ci sono crescenti preoccupazioni sul fatto che le possibilità che le vittime con doppia cittadinanza vengano rilasciate siano più alte di quelle che hanno coloro che sono cittadini israeliani. Mentre ormai è chiaro che gli ostaggi di nazionalità straniera hanno governi che lavorano attivamente per la loro liberazione attraverso negoziati segreti, con il diretto coinvolgimento nella mediazione di stati arabi terzi, come ad esempio il Qatar. Resta, purtroppo, l’impressione che gli ostaggi israeliani siano una priorità nazionale secondaria rispetto all’obiettivo primario della guerra, punire e togliere di mezzo Hamas a Gaza. Comunque, non c’è dubbio che il ritardo nel lanciare l’offensiva terrestre nella Striscia risenta anche dell’attuale trattativa per tentare di liberare il maggior numero possibile di ostaggi.
È l’eterno dilemma della legge ebraica del pidyon shvuyim (il riscatto dei prigionieri). Israele dovrebbe scambiare i rapiti con migliaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane? Oppure, Israele non dovrebbe cedere a compromessi, per non perdere il suo potere di deterrenza?
Nel 2003 il dibattito interessò l’allora primo ministro Ariel Sharon, che aprì una trattativa con Hezbollah (mediata dalla Germania) per la liberazione dell’ufficiale dell’esercito Elhanan Tanenbaum: “Israele ha l’obbligo morale di fare tutto il necessario per recuperare i suoi cittadini”. Tuonò il leone Arik. L’anno seguente Tanenbaum venne scambiato con centinaia di detenuti palestinesi.
Il 18 ottobre del 2011, dopo 5 anni di prigionia a Gaza, il soldato Gilad Shalit tornava ad abbracciare i suoi genitori (chi scrive si trovava in quelle ore nella tenda allestita dalla famiglia a pochi passi dalla residenza del premier in Balfour street, e bene ricorda la tenacia di Noam, il padre, e la solidarietà diffusa della gente). Per liberarlo Netanyahu (con l’aiuto della diplomazia egiziana) aveva trattato con Hamas, il prezzo fu la scarcerazione di centinaia di palestinesi.
Nel 1994 il tentato blitz, autorizzato da Rabin, per liberare Nachshon Wachsman ostaggio di Hamas nel villaggio di Bir Nabala alle porte di Gerusalemme, lungo la direttiva per Ramallah, fu un disastro. Wachsman venne giustiziato dai terroristi durante l’operazione. Stessa sorte era toccata agli olimpionici israeliani a Monaco nel 1972, la colpa del massacro in quel caso ricadde nell’incompetente gestione tedesca della crisi. 103 invece gli ostaggi del volo Air France 139 liberati con una spettacolare operazione a Entebbe nel 1976. Dove perse la vita Yonathan “Yoni” Netanyahu (fratello maggiore di Bibi), allora al comando delle forze speciali Sayeret Matkal.
Chiunque si soffermi ad esaminare l’argomento della trattativa per liberare gli ostaggi deve aver presente che nell’arco della storia le comunità ebraiche hanno sempre fatto di tutto per salvare le vittime. Nel Talmud è scritto che “la prigionia è peggio della fame e della morte”. In epoca medievale uno dei più grandi pensatori dell’ebraismo, il rabbino Moshe ben Maimon conosciuto con l’acronimo di Rambam, commentava che colui che ignora il riscatto di un prigioniero è colpevole di trasgredire i comandamenti: “non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso” (Deuteronomio 15:7) e “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Levitico 19:18). Il codice etico secondo Rambam era che colui che tarda a riscattare un prigioniero, è considerato al pari di un assassino. L’illustre filosofo personalmente si profuse nella caritatevole raccolta fondi per la liberazione di ebrei rapiti o resi schiavi.
Dal 1971, molti rabbini hanno dissertato sulla questione dell’appropriatezza o meno ad accettare le richieste dei rapitori. La maggior parte degli autorevoli uomini di culto fu concorde nello stabilire che “Israele non può scambiare centinaia o migliaia di terroristi con pochi soldati israeliani”, chiarendo che “non si paga più del valore del prigioniero”, perché altrimenti si mette a rischio la sicurezza di Israele.
Il dibattito morale purtroppo è materia scivolosa, in ballo la vita di decine di civili inermi, bambini, anziani, ragazzi. Shlomo M. Brody, firma del Jerusalem Post: “La tradizione ebraica non ci darà risposte semplici a questi dubbi, ma può fornirci un quadro sfumato per pensare a come bilanciare i bisogni individuali e la sicurezza della comunità”. Scrive l’attivista anti-occupazione Michael Manekin sulle pagine del New York Times: “Generazioni di ebrei sono cresciute con il concetto che la nostra prima attenzione dovrebbe essere per coloro che sono tenuti in cattività. Per me, questa tradizione significa la bellezza della responsabilità comune. Rafforza l’obbligo, comune anche tra le altre nazioni, religioni e costumi etici, di prendersi cura profondamente del prossimo. Senza di essa, la nostra solidarietà comunitaria è perduta”.
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi