Non si sa certo se poi sarà verificabile o meno l’affermazione del già premio Oscar Alfonso Cuarón , che ha dichiarato il film di Jonathan Glazer, che ha vinto l’Oscar per il il miglior film in lingua straniera, come il più importante del secolo. Ma certo lascerà il segno anche per le generazioni che sono nate lontane decenni dalla Shoah. E meriterebbe di essere visto nelle scuole per come usa in modo innovativo il linguaggio cinematografico al servizio del tema.
Soprattutto perché Glazer fa un’operazione che il cinema non aveva mai fatto rispetto all’Olocausto: cioè lo rappresenta solo evocandolo con sussurri e grida , peraltro soffocati e confusi. Sempre fuori campo. E lo fa da un luogo privilegiato al massimo per questo : nientemeno che la vera abitazione (ricostruita fedelmente in ogni particolare) di Rudolf Höss, direttore del campo di concentramento di Auschwitz, dove sono morti, tra il 1943 e il 1945, tre milioni di ebrei , “di cui 2,5 nelle camere a gas , l’altro mezzo milione di fame e di stenti” , come con puntigliosa precisione contabile lo stesso Höss, ebbe a obiettare al Presidente della Corte di Norimberga. Fu successivamente giudicato in Polonia e condannato all’impiccagione. E a questo punto suona profetico, mezzo secolo fa , Jean- Luc Godard che si diceva convinto che l’unica possibile rappresentazione della Shoah , che possa quindi tramandarne il senso profondo e la potenza della verità di quella storica mutazione antropologica della specie umana, è immaginare un film che si concentri proprio sulla complessa organizzazione burocratica con cui il nazismo ha pianificato nei minimi termini il genocidio.
Glazer lo prende in parola e dimostra nella sua opera di poco più di 100’ l’assunto del grande maestro ginevrino. Utilizzando al meglio la sua sapienza di cineasta, riprendendo quasi sempre solo con i sensori delle 10 telecamere la villetta dove Höss con la moglie Edwige , 5 figli, personale domestico e ospiti vivono. Il risultato di questa nuova prospettiva , con tecniche e panottico da ‘Grande Fratello’ è che l’ orrore dell’Olocausto ci devasta in un modo infinitamente superiore a quanto hanno fatto il classici sul tema, come Schindler List e il recente One Life con un grande Hopkins.
Usciamo completamente contaminati dall’aria che si respira attorno alla villetta, sentiamo di esserne rappresi persino negli abiti, nella bocca , nelle narici . E per farci sentire tutta questa dimensione mefitica al regista bastano brevi secchi segni : la madre della moglie di Höss che venendo a trovare la figlia dopo i convenevoli ( “ sei proprio caduta in piedi figlia mia”!), ma non riesce a stare in quel luogo per più di due giorni, giacché dice “ qui si respira un odore terribile ” e se ne va una mattina silenziosamente lasciandole solo un laconico biglietto. Ma in lei, che aveva servito la ricca ebrea (ora già gasata ad Auschwitz) della cui pelliccia di visone si è impossessata la figlia , con cui si complimenta per il capo che ben conosceva ) è solo un problema di olfatto. E alla fine del film lo stesso Höss è preso da conati di vomito , ma in senso puramente animale : il suo organismo reagisce allergicamente rispetto a tutta la sostanza di sangue, cadaverica , tossica che produce e di cui si circonda. E’ una reazione puramente fisiologica, senza alcuna consapevolezza morale.
L’orrore appunto, allo stato puro , che arriva senza avvertimenti, e all’improvviso come uno schizzo di letame o un nugolo di blatte schifose sull’ inamidata tavola di lino imbandita, accanto al tuo giardino, al tuo abito di cerimonia , in una ridente giornata fiorita.
Qualcosa del genere ha fatto David Lynch sia all’inizio che alla fine di Blue Velvet : il garrulo vecchietto che innaffia fischiettando il suo nimby in una bella mattinata primaverile , stramazza per un coccolone a terra, il tubo dell’ acqua rotola su un cespuglio e scopriamo il famoso orecchio Mac Guffin , mozzato e sanguinolento, già intaccato da vermi e formiche. L’Orrore. Quello vero. E’ anche questo, improvviso. Quello senza rimedio. Che non ti puoi cancellare perché ce l’hai addosso. L’Orrore di Shining nelle centinaia di pile di fogli tutti accatastati nella sala dell’ albergo dove il presunto scrittore Jack Torrance (Jack Nicolson) sta scrivendo il suo libro, e la moglie Wendy (Shelley Duvall) scopre che sono tutti pieni senza soluzione di continuità di un’unica frase senza punteggiatura : il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca il mattino ha l’oro in bocca… .
Come nel laghetto che costeggia il campo di Auschwitz dove Höss porta i bambini a fare tutti un bagno sguazzando in quelle chiare , fresche e dolci acque , ridendo e spruzzandosi a vicenda, ma… ecco , maledizione, Höss viene urtato al ginocchio dentro l’acqua da un qualcosa di duro e leggero, lo prende in mano, è un pezzetto di osso umano , residuo della cremazione dei milioni di ebrei che lui sta saponificando come “pioniere indefesso della causa nazional-socialista”. Allora precipitosamente decide che il lago è contaminato , che i figli possono essere infettati, e proprio della sostanza di cui sono fatti quegli sporchi ebrei che sta eliminando, ma gliene ritornano ancora coi loro resti, malgrado lo Zyklon B , malgrado i forni ad altra efficienza , senza residui, malgrado le ossessive meticolose sanificazioni dopo ogni operazione. Si dirige trafelato verso i bambini e gli dice che c’è qualcosa che non va , che bisogna tornare indietro, e ai bambini spaventati e smarriti dalla sua concitazione scura sarà solo capace di dire , allarmandoli fino al pianto, “andrà tutto bene, bambini, vedrete, è tutto finito …”.
L’Orrore vero. La follia pervasiva. Poi di corsa alla villa dentro le vasche bollenti, e disinfettate, e a sfregare con le varie domestiche a fondo ogni lembo di pelle, a disinfettare ogni veste. Sfrega, sfrega, ma non ce la si fa a liberarsi. Di tutto l’orrore. Che infatti ti torna dietro quando meno te l’aspetti. E così la sera nella loro cameretta i bambini giocano con loro oggetti , come ai soldatini o simili, ricevuti in regalo o raccattati con la fantasia dei bambini, e a un tratto uno di loro si ritrova in mano uno strano pezzo ormai marrone e luccicante : è un ponte dentario d’oro , ma loro non lo sanno, come non sanno sia finito lì.
La prima immagine che ci arriva appena inizia la proiezione è uno schermo vuoto, chiaro, ma sporco (un sudario unto, residui ematici rappresi ?) , e in sottofondo, anche a chiusura del film , alcuni minuti di solo audio : è una composizione di Mica Levi che echeggia i sussurri e le grida daAuschwitz, come se provenissero dalle camere a gas.
Poi abbiamo un declivio collinare ridente attorno al campo dove varie famiglie , tra cui quelle degli aguzzini, stanno facendo un pic nic.
Ed ecco la villetta degli Höss . E un tripudio di fiori . Dappertutto. La mdp.si sofferma su un cespuglio di azalee . Quelle di un rosso vermiglio. Riprende il loro dischiudersi , come un’offerta che sa di eros e di vita. Poi l’immagine diventa fissa, irrigidita, inanimata . E il rosso vermiglio delle erotiche azalee diventano per lunghi secondi solo uno schermo rosso sangue che ti fissa implacabile.
Sempre sui fiori e le piante : si sente la voce di Höss , che emana un severo comunicato a tutti i militari e impiegati del campo “ di non prendere più i fiori dai cespugli dei biancospini, ma solo in forma singola , già recisi, distribuiti negli spacci addetti. E questo per preservare la bellezza e il decoro del nostro ambiente naturale , secondo i valori profondi dello spirito nazionalsocialista”.
Se il campo e il controcampo erano considerati da decenni espedienti di povertà registica, qui Glazer li recupera ad arte dandogli sensi e direzioni perturbanti , come quando dopo l’immagine ridente della villa fiorita e delle voci argentine dei bimbi, il gioco del campo opposto ci sbalza improvviso, alle spalle del padrone di casa, l’ atroce verità della visione della fornace di Auschwitz ,che non smette mai di ardere.
E ancora fanno più orrore di mille gassificazioni in diretta i pacati discorsi con le varie coordinate logico-matematiche che intercorrono tra Höss e i vari burocrati esperti che appassionati sorseggiano un tè mentre strabiliano davanti alla potenza della tecnica applicata, come fossero di fronte al brainstorming di Von Braun&Co vent’anni dopo a programmare l’ allunaggio da Cape Canaveral : e invece sono qui degli scarafaggi-formiche che studiano scientificamente la soluzione finale. Per fermare l’immagine totale, crudele, insostenibile definitiva della traccia quei 3 milioni di gasati ad Auschwitz, a Glazer basta allora solo un carrello lento come un’agonia sulla poltiglia grigia e informe che non riusciamo all’inizio a mettere a fuoco: sono le ciabatte dei tre milioni di ebrei sterminati. Quello che rimane di loro.
Glazer forse si concede un pizzico di speranza solo con immagini- cartoni virati ‘in negativo’, realizzando una sorta di favola lunare altrettanto perturbante senza sonoro , con la giovane contadina polacca che di notte, sulla sua bicicletta, attenta e tesa come stesse mettendo delle mine, in terra dappertutto attorno al campo quintali di mele nella speranza che i poveri cristi che vi lavorano, il giorno dopo le possano trovare e cibarsene. Questa donna è esistita veramente e Glazer l’ha conosciuta.
Si procede qui nella recensione , anche per necessità di tempi, soprattutto incollati alla “cronaca” delle prime impressioni appena carpite , dei sussurri e grida e frammenti di controcampi destabilizzanti, come nelle intenzioni e visioni di Glazer. E quindi ora si può solo additarne alcuni segni dei suoi fuori campo visivi e acustici. Già Laszlo Nemes col suo magnifico Il figlio di Saul aveva usato il fuori campo dell’orrore con un formato 3:4 , ma lì l’oggetto era il povero corpo di una vittima dell’Olocausto (il figlio presunto) , qui sono invece i carnefici che evocano ancora più orrore definitivo con la loro “normalità” quotidiana.
La fotografia è volutamente plumbea e sia gli interni che gli esterni ti trasmettono un non so che di macilento, malaticcio, di grigio e marrone, persino negli ambienti paludati , anche nelle divise naziste d’alto rango e lustrini e nelle pellicce delle madame al seguito. E malgrado ciò pure qui – seppure in controluce e in totale sottrazione – si rivela , senza primi piani e nemmeno campi medi, la mostruosa bravura di Sandra Hüller che recita la parte odiosa della moglie di Höss , “la regina di Auschwitz” , come l’appella lui. Ma bastano il tono e la smorfia lieve con cui lei lo ripete, per rimbalzarci l’immagine di donna sciupa- machi- inetti , come ben rivelato sia in Toni Erdmann che in Anatomie d’une chute . Qui si mimetizza con l’ambiente, assume una camminata pesante, una zoppìa , lei così leggera e in punta di piedi nella vita, ora giovane matrona che ciabatta sull’erba anche coi tacchi. È la perfetta Edwige Höss, dalle aspirazioni piccolo borghesi, senza cuore per nessuno, e comunque la documentazione storica ci dice che alla fine di tutto farà arrestare il coniuge , nascosto dopo la caduta del regime , pur di salvare i figli e quel che le restava della “roba bella” presa agli ebrei ricchi.
Prima di chiudere questi frammenti vogliamo fermare un’ultima immagine, probabilmente misconosciuta, ma per noi significativa en abyme dell’intero lavoro di Glazer. Durante un ricevimento a Berlino, in un lussuoso paludato palazzo di Berlino , con gerarchi e madame, Höss (Christian Friedel de Il nastro bianco) ormai in carriera come “pioniere meritorio nella esecuzione della soluzione finale”, salendo le scale quasi in cima al palazzo, a un certo punto, prima di essere assalito dai conati di vomito cui si accennava, si volta giù a guardare nell’ amplissimo foyer lo sciame dei tanti convitati della Germania nazista che allora contava. È come se Tarantino in Bastardi senza gloria, avesse racchiuso in quella prospettiva la crema del regime che da un momento all’altro in quello stesso luogo sarebbe stata fatta saltare col tritolo da parte degli ebrei resistenti , secondo il puro wishful thinking del suo finale visionario e liberatorio .
Glazer fa lo stesso usando la prospettiva di Höss , riuscendo a stipare quel centinaio e passa di persone in un unico strabiliante grandangolo che deforma quello sciame nel più puro stile espressionista : visti così questa genia del generone nazista appare ora dall’alto in basso come insetti e vermi che si divorano l’un l’altro.