Gli orsi non esistono, il cinema “impossibile” di Panahi invece sì

Firenze – Prima scena: in  una strada del centro storico  d’ una non ben identificata cittadina, due persone un uomo e donna, due amanti, discutono animatamente circa due fantomatici passaporti che devono ricevere per varcare assieme il confine iraniano. L’uomo però ora dice che la donna dovrà partire da sola, giacché lui non ha il suo pass.

La donna rifiuta, lei non partirà fino a che lui non potrà avere il documento. All’apice del picco drammatico, fuori campo si sente “stop!”  poi si vede un carrello con  mpd indietreggiare: quindi ora sappiamo che siamo sul set di un film che si sta girando. C’è il cameraman, ma non il regista, Jafar Panahi. La sua voce giunge fuori campo che più “fuori campo” non si può:  lo vediamo adesso  Panahi, ha un pc e si muove via internet , ha anche uno smartphone: ma non sta nella location, è ben lontano, guida le riprese, la troupe e gli attori, in una stanza spoglia, in una casa modestissima, in un villaggio di montagna a 10 km dal confine con la cittadina turca dove Jafar Panahi  che – come lucidamente vuole l’autore – è quello del suo cinema represso, negato, proibito: già da questa scena c’è tutto il suo cinema impossibile e stoico:  più cercano di reprimere la sua arte, ancor più lui la fa comunque fuoriuscire.

Il regista non può girare film (da vent’anni) in patria, né organizzare una troupe, non può più nemmeno uscire fuori dal paese perché agli arresti (è stato temporaneamente liberato un mese fa, assieme al suo collega Rasoulof, mentre invece è stata arrestata l’attrice de Il Cliente (Oscar con Farhadi) Taraneh Alidoosti; né Panahi adesso può “girare” almeno  in auto  con una sua telecamera (come ha fatto in  Taxi Teheran e in Tre volti).  E allora s’”inventa” di guidare dal suo pc la troupe in Turchia al confine del suo paese  e comunicare con i suoi collaboratori solo con lo smartphone, con il campo che va e viene in quel paesino sperduto sulle alture dove è appostato.

“Basterebbe che la bianca palpebra dello schermo potesse riflettere la luce che le è propria per far saltare l’universo”. Mai come in questa ennesima impresa di Panahi risuonano profetiche le parole del grande Luis Bunuel.  E anzi, in questa , a tutti gli effetti ,  autentica impossibilità ad operare, senza alcuna normale di condizione di mezzi e luoghi – si capisce fino in fondo – e si invera fattualmente – il significato estremo e stupefacente di quanto  intendesse il maestro spagnolo. E non perché questo lavoro dell’iraniano produca subitanea meraviglia  per immagini appunto “meravigliose” e/o per una storia avvincente per action movie o viaggi nei  sentimenti, non per musiche suggestive e prove d’attore memorabili.

Niente di tutto questo. Anzi niente di tutto quello che ci si aspetta nel sedersi in sala “per vedere un film”. Che non è un film- storytelling né il back stage palpitante di un film-nel-film come Effetto notte di Truffaut  o Lisbon Story di Wenders; forse quest’ultimo  fin troppo ragionato nel suo “profilo altissimo di regia” all’opera, con prove tecniche e riflessioni eccessive con un altro inarrivabile eterno maestro come Manuel De Oliveira.

No,  qui con Panahi non c’è neanche il lusso di fare del meta-cinema à la Truffaut e Wenders. C’è solo l’urgenza di fare cinema, pieno di senso e intenzioni, essendo deprivato di ogni elemento fondamentale per allestire un set cinematografico che si possa chiamare tale. Eppure il miracolo di quell’azione magica e misteriosa del cinema avviene , malgrado tutto e tutti.  

Perché questa storia proprio nella sua nudità, nella sua onestà, avvince, emoziona, per la forza delle cose che rappresenta, delle immagini che ferma , anzi ogni immagine diviene segno che si impone con urgenza a tutti noi. E ci sentiamo tutti chiamati in causa :“la bianca palpebra dello schermo che riflette anche solo un poco della luce che sprigiona , tale da far saltare l’universo”.

Ed entriamo così  senza accorgersi nel viaggio di due storie vere e intersecate di due coppie, che si mischiano con la finzione del film in atto, ma anche nella storia intima del regista che deve decidere in fieri  che direzione dare al suo ruolo, sino alla fine al film.

Un primo MacGuffin di questa storia è una semplice foto scattata con una polaroid dal regista a due fidanzatini che  filtrano cauti e misurati appoggiati al muretto del paesino. Ma non è possibile  neppure questo nell’Iran di oggi, percorso da tante paure ataviche piene di superstizioni, con  un regime che adopera  e deforma la religione islamica sciita come pura oppressione verso una società civile in gran parte giovane, che si ribella e resiste sempre più , come vediamo dalle cronache.

La ragazza della coppia è stata promessa dalla nascita (secondo tradizione locale) a un uomo che non ha mai visto e ora l’intero paesino si muove per cancellare l’oltraggio che la foto minaccia :  deve essere riconsegnata e distrutta, altrimenti il promesso sposo perderà l’onore, e così la famiglia della promessa, e con lui tutta la comunità. Quindi pressioni sul regista fortissime, pellegrinaggi e blandizie dai maggiorenti, implorazioni dai parenti della ragazza, ma la foto non si trova ( è stata poi fatta?) . E Panahi – che si fa qui testimone in prima persona, non narcisisticamente solo della sua individualità, ma di una generale condizione storica, sociale, culturale, politica –  in una delle varie scene memorabili del film alla fine si inchioda a giurare solennemente sul Corano, di notte, di fronte al consiglio della comunità di non aver mai fatto quella foto. Che invece si presentava come uno dei tanti immaginari “orsi” del film .

“La gente di città ha problemi con le autorità, noi abbiamo problemi con la superstizione”, dice in una splendida sequenza notturna uno dei maggiorenti  del villaggio che riaccompagna sollevato il regista, dopo la surreale liberatoria riunione del “giuramento”. I due fidanzatini saranno poi così costretti a fuggire , cercheranno di passare il confine, e vedremo alla fine che per questo perderanno la vita .

L’Iran  si dibatte in un serraglio psichico e sociale fatto di “mostri” e di “orsi” immaginari,  per alimentare la paura e quindi  il controllo del regime oscurantista sul popolo. Ma in realtà “gli orsi non esistono”, come dice un abitante , non possono aggredire le persone , giacché è una fauna neppure presente in quel territorio. E  mentre avviene questo annuncio liberatorio, i due uomini sono in piena luce su uno spiraglio  improvvisamente illuminato  in cima alla strada, nella parte superiore ristretta  dell’inquadratura , nella notte fonda , dove tutto il resto dei fotogrammi della sequenza ( la gran parte) è buio come l’oscurantismo che in quel momento le parole  hanno dissolto.

Fermiamo allora alcune altre immagini significative di questa autentica “impresa” che Panahi ci ha regalato con cuore ed intelligenza.

Una scena memorabile è di nuovo notturna. Panahi attende sul confine il suo assistente  che gli consegni il “girato” giornaliero  da esaminare. Lui non può varcare il confine. Alcuni contrabbandieri possono farglielo varcare di nascosto e impunemente, seduta stante , lì e ora. Basta un passo avanti ed è fatta.  Il regista per un attimo vacilla, guarda le luci sfavillanti della città ,  straniera, ma per lui certo accogliente , a pochi chilometri, pensa alla  libertà di girare in Turchia, con mezzi adeguati alla sua arte, posa il piede sulla striscia d’asfalto verniciata che definisce il confine, e poi comunque si ferma, dolorosamente torna sui suoi passi. No lui rimarrà sulla sua terra  e continuerà a girare clandestinamente, coi suoi poverissimi mezzi,  fino alla fine. Per sé e per tutti gli altri artisti e concittadini conculcati.

C’è un’altra scena cruciale e riguarda la storia parallela dei due fidanzati attori in attesa dei due passaporti falsi  per passare il confine. Altro MacGuffin del film. La finzione anche qui fa sparire e apparire come un miraggio i due passaporti, che prima ci sono, poi no. Fantasmatici. Ma improvvisamente, mentre i due attori sono ripresi di schiena, la protagonista del film si ferma, si volta  indietro e guarda in macchina. Fissa, magnetica. Fissa Panahi. Ma anche tutti noi. Si ribella al suo ruolo, accusa il regista di strumentalizzare il suo dolore, di donna che ha dovuto passare per la prigione e le torture del regime. Gli occhi grigi lucenti e il bellissimo viso sono quelli della grande attrice iraniana, Mina Khosravani , in arte Mina Kavani.

Dal 2010 è in Francia , a Parigi, prima per arricchirsi artisticamente, poi perché al bando del regime del suo paese che non tollerava la sua libertà di espressione. Ora è anche cittadina francese, come rifugiata. Oltre al suo autentico vissuto, in lei qui e ora, fiammeggiano tutte le Antigoni e le Desdemone che ha rappresentato nel teatro e al cinema come tante altre eroine. Mina non ci sta al suo ruolo nella finzione, non accetterà di rimanere in patria per aspettare il suo uomo. No, lei dice al regista, partirà lo stesso, e il suo compagno partirà dopo, se vorrà, con o senza passaporto. Lei si opporrà a tutti i Creonte ed Otello della storia. Mina ora è libera. Ma in Iran altre attrici, altre donne, quasi tutte giovani, sono uccise, torturate, recluse, ma lottano impavide e determinate.

Infine verso la fine del film , Panahi dall’auto che guida scorge, sul fondo a lato destro della strada in campo lungo, ma ben distinti, distanziati un centinaio di metri uno dall’altra,  i due corpi esamini del ragazzo e della ragazza che per amore hanno cercato , rimanendo uccisi, di varcare il confine. E allora fa un ennesimo gesto potente di cinema, ma soprattutto di etica. Rimane in campo lungo, distoglie lo sguardo di fronte a quelle due morti  che tutta questa superstizione e oppressione hanno lì provocato.

Ferma l’auto in una piazzola, e tira con forza il freno a mano. Ci dice così che quella  realtà , quella resistenza di giovani, è ormai impossibile da  catturare , malgrado ogni finzione , anche  la meglio intenzionata, e  ogni regista non deve tentare la fuga, ma fare un punto fermo sul suo ruolo, nel suo paese. Anche in prigione. E’ avvenuto. Continua ad avvenire.

Gli Orsi non esistono di jafar Panahi. Non presentato  agli Oscar perché  proibito dal  regime  iraniano , che  da un ventennio imprigiona  e rilascia periodicamente  il suo autore, che  non può girare film , né lasciare  il paese. Oltre al Gran Premio speciale a Venezia 2022, a Cannes Camera d’or 1995, Premio Giuria 2000, Pardo d’oro a Locarno 1997, Miglior sceneggiatura Cannes 2018, Leone d’oro a Venezia 2000, Orso d’argento a Berlino 2013, Orso d’Oro 2015. E’ considerato il vero erede artistico del maestro Kiarostami.

 

Total
0
Condivisioni
Prec.
Chiavi della Città a Renato Zero, “Non cambiate la serratura”

Chiavi della Città a Renato Zero, “Non cambiate la serratura”

Firenze – Il sindaco Dario Nardella ha conferito sabato 11 marzo a Renato

Succ.
Cgia Mestre, fondi europei e Pnrr a rischio, “occorre investire nella Pubblica Amministrazione”

Cgia Mestre, fondi europei e Pnrr a rischio, “occorre investire nella Pubblica Amministrazione”

Firenze – Fondi europei di coesione, una valanga di soldi anche per il

You May Also Like
Total
0
Condividi