Gli iperconnessi? A scuola sono i peggiori

Ci voleva il rapporto dell’Ocse “Studentes, computers and learning: making the connection” per sfatare un abusato luogo comune: chi più usa strumenti elettronici anche a fini didattici, sarebbe studente coi risultati migliori. Il rapporto non ci restituisce infatti l’esatto contrario in termini di sintesi ma poco ci manca.

Computer, connessioni internet e software educativo non danno eccellenza nelle materie scientifiche né in quelle umanistiche. Anzi, nei Paesi in cui i giovani fanno uso moderato degli strumenti elettronici, direttamente in classe o a casa per i compiti, i risultati nella lettura cambiano in meglio più velocemente che nei Paesi dove li si usa più diffusamente.

La troppa esposizione ai computer in sostanza danneggia non solo la “lettura tradizionale” ma, non troppo paradossalmente, anche quella “digitale”. Dall’altro lato un’altra recente indagine del Cesmer ci dice che i lettori di libri cartacei (ma anche digitali) hanno un indice di felicità (scala Veenhoven) superiore ai non lettori. E sono più ottimisti e meno aggressivi.

Continuiamo dunque a diffidare della web-idolatria che i sacerdoti della consumazione compulsiva del presente ci vogliono comminare. E che nei loro riti virtuali pluriquotidiani tentano invano di farci credere come i social-media o giù di lì abbattano repentinamente le barriere burocratiche e riducano sensibilmente gli spazi siderali della democrazia. A favore di un egualitarismo di massa dove non si distinguono le fonti né si hanno punti di riferimento per discernere (il discusso filosofo tedesco Peter Sloterdijk li chiama “cronocomunisti”).

E atteniamoci al consueto adagio di buon senso che sempre ha accompagnato le epoche e trasceso le modernità: gli strumenti sono fatti per l’uomo, non viceversa.

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