Gli eroi/vittime della LAF: un cinema avvincente e  originale

Folgorante esordio alla regia di Michele Riondino

Folgorante esordio alla regia di Michele Riondino, con un’opera prima dallo stile ricco di soluzioni  interessanti e  spesso avvincente come un thriller. Un lavoro per cui vale spendere con convinzione una volta tanto aggettivi come necessario e originale : perché alla fine non ne rendono la grana particolare i riferimenti immediati a  La classe operaia va in paradiso e ad  Acciaio, che 11  anni fa vide già Riondino interprete di un operaio al siderurgico di Piombino. Ma il film di Mordini tratta la realtà operaia con uno sguardo prettamente documentaristico, come sfondo, condizionante , ma contingente alla storia di formazione delle due adolescenti del romanzo di Silvia Avallone.  E anche rispetto al cult di Elio Petri e all’ istrionismo del grande  Volontè, qui  la partita è giocata con diversi moduli e registri interpretativi. E la classe operaia è rappresentata in un modo e prospettiva certamente mai visti in Italia. E nella sua autentica realtà storica. Il  Caterino Lamanna di Riondino è anche lui davvero un “uomo senza qualità” come il Lulù Massa di  Volontè  (sempre con l’accezione ben diversa del capolavoro di Musil) , ma a fari abbassati rispetto all’operaio padano , non enfatico come lui, ma fàtico,  semigutturale a volte,  conati più che frasi : la sua calata è quella tarantina del padre di Riondino, già operaio all’Ilva, come i  suoi zii, e gli amici di famiglia. E il suo Caterino Lamanna , a differenza della logorrea e faconda ambiguità del  Lulù Massa/ Volontè, parla, pensa e si atteggia come loro. Con un linguaggio ben più povero, fatto di anacoluti, luoghi comuni , ripetuti da generazioni di lazzaroni, e si ritaglia un ruolo totalmente diverso dal mattatore Volonté.

Come sarebbe stato probabilmente   il vissuto  dello stesso Riondino, se non fosse partito ventenne per Roma, giacché il suo destino era ampiamente previsto e iscritto all’interno dell’Ilva. E da qui si avverte l’urgenza esistenziale dell’autore che da sette anni aveva cercato di fare questo film.  Che non avrebbe avuta la sua particolare espressione finale senza un ventennale percorso di formazione, presa di coscienza,  impegno civile , documentazione accurata  e decine di interviste e confronti con la realtà viva della fabbrica , lungo quasi un trentennio da quando Riondino colloca questa situazione all’ILVA : nel frattempo ci sono  stati per lui Roma, con l’Accademia d’Arte Drammatica , il teatro, Il passato è un terra straniera con la regia di Vicari ( miglior interprete al Festival di Roma) , Dieci inverni con Mieli, Noi credevamo con Martone, Gli sfiorati con Rovere , Il giovane favoloso ancora Martone, La ragazza del mondo con Danieli, dove fu candidato per la prima volta al David di Donatello come attore protagonista,  che lo vede ora vincitore per il 2024 appunto per Palazzina LAF, oltre alla candidatura per I leoni di Sicilia, nello stesso anno.  E da una dozzina  d’anni ancora l’impegno nel Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti a Taranto, dove dal 2012  è  direttore artistico del concertone del primo maggio, assieme a Diodato e Roy Paci.

Ma interessante per la valenza ultima del film è la scelta di linguaggio cinematografico che Riondino fa,  ponendosi a contatto  di  una materia doppiamente incandescente come questa vicenda dell’Ilva, che si riferisce nel film non alle tragedie poi esplose per le morti da emissioni cancerogene dello stabilimento,  ma al primo caso di mobbing collettivo attuato dall’ azienda, che nel 1996-97 confinò un centinaio di maestranze appunto in questo reparto fantasma (‘Laminatoio a  freddo’, LAF ) . C’era il precedente celebre dei “confinati facinorosi” nel reparto c.d. ‘Stella Rossa’  negli anni cinquanta della Fiat di Valletta, poi l’altro caso eclatante, nel 2008-2009 , dalla Fiat di Pomigliano d’Arco il reparto- confino di Nola, con diversi casi di suicidio, l’ultimo nel 2014.

Riondino, per non rimanere nello scontato documentarismo di denuncia,  comincia con l’evitare il  più possibile le soggettive del protagonista e a utilizzare in punti salienti  l’anamorfismo  delle immagini. Il risultato è quello di  trasfigurare espressionisticamente in più punti le situazioni, per far apparire una realtà  a volte  deformata e tremolante , recuperando  il  mood che intendeva nel suo racconto.  Gli interni della Palazzina LAF  ci appaiono all’improvviso come  angoli prima spogli, poi carichi di un orrore sottilissimo eppur vivo , contrappuntati dalle sapienti musiche di Theo Teardo, che sottolineano un senso di minaccia latente. Uno shining tutto celebrale, simile a  quello della protagonista Wendy  (Shelley Duvall) di fronte alle pile di fogli bianchi con su scritto a macchina l’ossessivo “il mattino-ha-l’oro-in bocca”. La prima figura che Caterino incontra in questo girone LAF , è quella femminile di Vanessa Scalera, sulle scale, abbandonata senza senso. Man mano, stanza per stanza, gli si quaderna  un girone dei dannati assai particolare. Una dimensione che, da marxiana alienazione nel lavoro , qui  diviene  alienazione dal lavoro tout court , dove i soggetti vengono spogliati  addirittura  nella  dignità anche delle loro competenze primarie e acquisite.

Qui  alla LAF sono  per lo più colletti bianchi : ingegneri, impiegati ribelli, e qualche capo officina deviante, tutti comunque demansionati, e  su cui far pendere il ricatto di un declassamento a  soluzioni umilianti quando non agibili. Come nel caso dell’ingegnere zoppo  che dovrebbe essere destinato a un lavoro manovale all’inpiedi. In generale una situazione di accidia e di degrado totale, una tensione a volte così  disperata per cui  prorompere come fa  la sempre fiammeggiante Scalera: “ Se a me mi facessero almeno lavorare, vado a pulirgli anche i cessi!”. La stessa Scalera è poi perfidamente colta in altra stanza a dirigere mistica un gruppo di preghiera come ultimo rifugio di sopravvivenza spirituale.

Questa dimensione del sacro disseminata  qua e là con ironia, ma anche ad evidenziare contraddizioni tra la realtà spietata della fabbrica e il messaggio cristiano, fino a  toccare le fonti cui attingono  certe  radici più ancestrali  della comunità descritta.  Il girone continua in un’altra stanza, piena di fumo, divenuta una sorta di bisca clandestina, dove un bassino, evidentemente “scoppiato” per avervi perso tanti denari, esplode istericamente, urlando come un ossesso e rompendo tavoli e sedie ; un altro si è ridotto a  fare scherzi impotenti al telefono a base di pernacchie ai grandi capi , ma solo metaforicamente, giacché l’unico apparecchio è in corridoio , ed è solo ricevente. Sempre nel corridoio in fondo, due ingegneri non trovano altro di meglio da fare che schiacciare i  continui onnipresenti pacchetti di materiale di cancelleria e  fascicoletti pubblicitari e circolari vari, saltandoci ogni giorno sopra ossessivamente, ritmicamente, in una specie di balletto grottesco, evocando immagini del manicomio del celebre Qualcuno volò sul nido del cuculo del 1975  diretto da Milos Forman con il grande Nicholson.

E qui il riferimento è estremamente calzante giacché, nel gergo americano , The Cuckoo’s Nest  erano i manicomi, e comunque tutte le istituzioni totali reclusorie ed emarginanti in cui da sempre il sistema capitalistico a tecnologia avanzata, depone le sue “uova del cuculo”, che reca ad altri nidi le sue uova marce (supposte tali), comunque disfunzionali alla logica del profitto meramente speculativo; e la palazzina LAF era una “discarica” adeguata a dislocare  come rifiuti  tossici sociali elementi che, a loro volta , spesso si ammalavano per gli effettivi rifiuti  tossici inquinanti (come nel caso dell’ILVA). Metafora poi evidente quella  caprone che all’improvviso si inarca tremolante e crolla fulminato nel prato antistante, come i tanti altri capi di bestiame abbattuti per i veleni sprigionati dai fumi e dal cobalto. Significativa dell’approccio originale e innovativo al film, spesso ironico e  grottesco, tra le altre una scena verso la fine, in cui nella stanza che Caterino ha eletto come “ suo ufficio”, questi osserva una nuova venuta  alla Laf, una  bella impiegata, Rosalba , già travagliata per il mobbing che sta subendo: sta cantando, seguendo un brano alla radio. E’ interpretata da Marina Limosani, della scuola di Barbara Nativi, del Teatro della Limonaia di Firenze. Caterino si ferma colpito e chinandosi su di lei le  mormora dolcemente nel più classico degli appeal, che “ha proprio una bellissima voce”, la tira a sé invitandola a ballare , cingendole i fianchi discretamente, ma non neutralmente.

Tutti si aspettano nel dondolio in atto almeno un romantico bacio ma, inaspettato twist narrativo ,  Caterino quando è guancia a guancia, le sussurra solo:  “Adesso le dirò un segreto all’orecchio : qui dentro tra noi… c’è una spia!”.  E confessa così, senza  rivelare se stesso come il Giuda  infiltrato (se non poi al processo in cui è testimone e coimputato del primo caso sanzionato di mobbing collettivo in fabbrica)  il  ruolo per cui è capitato alla LAF. Ce lo ha messo, circuendolo mellifluamente, il capo del personale, Giancarlo Basile, interpretato da un altrettanto grande Elio Germano.  In realtà Germano era stato contattato da Riondino per  essere lui Caterino, ma si è convinto che questo ruolo spettava  solo a Michele, mentre lui si sarebbe ritagliato quello di Basile . Anche questa è una buona notizia per il cinema italiano, perché denota , almeno tra  alcuni tra i miglior attori quarantenni nostrani, un reciproco spirito non narcisistico.

E anche l’understatement con cui l’autore  si è avvicinato al suo lavoro, non per vampizzarlo, in autoreferenziale  performance , ma per farne il più possibile qualcosa di  significativo per lo spettatore e indurre una corrente di coscienza generale. Caterino , ma poi tutti gli altri in scena, risultano  tremendamente  veri, nella loro  antropologia data e concreta, dell’oggi,  dicono le cose che abbiamo ben sentito in giro , tipo :  “Vedi ora ho un’auto quasi nuova,  bollo, assicurazione , benzina gratis, e in più mi hanno fatto capo-squadra, con stipendio ben aumentato!…”. Lo stesso  Basile di Germano è una simpatica canaglia , verosimile, cialtrone, ma non mefistofelico. Rispetto al film di Petri, la classe operaia di Lamanna non esiste più come coscienza, è frantumata ed esposta solo a pulsioni privatistiche e  primitive. Ci sono momenti in cui arriva come una sentenza  la denuncia chiara e allora cala il silenzio. Come quando l’ingegnere zoppo guarda assorto la fabbrica nel paesaggio e riflette : “Con tanto acciaio per navi e armi, è scandalosamente indicativo come qui d’intorno non hanno pensato nemmeno a una fabbrichetta di forchette…”. O quando decidono di fare una lettera al vescovo  da consegnargli  in occasione della solenne messa che celebrerà  in fabbrica e  dovrà essere letta in pubblico, e  chi la detta è proprio il gorillone barbuto ritenuto fin lì il più improbabile, che si mostra invece asciuttamente profetico nelle parole e tono scelto per definire con forza  la condizione  in cui versano. Questa lettera, al momento della comunione, sarà tolta improvvisamente di mano all’incaricato alla consegna e presa da Rosalba , che si alza per compiere un gesto eclatante nei confronti del vescovo, ma viene fermata all’ultimo momento da Basile, che le afferra a sua volta la mano.

Questo sottile silenzioso nervoso dibattersi di mani, in una disputa feroce, le espressioni soffocate che i due si scambiano, fino alla desistenza di Rosalba, dà il senso di quale  disorientamento e corruzione delle coscienze pervade  tutti i protagonisti  di tale complessa condizione collettiva. Riondino , a chiosa del  suo lavoro ,  sottolinea che” il film non vuole mostrare redenzione in nessun personaggio”,  affinché ciascuno finalmente si assuma le responsabilità del proprio vivere civile  e il senso di dignità verso se stesso. Caterino Lamanna è un utile idiota, Basile il corruttore, la proprietà è predatoria e cinica, ma anche gli altri, dai sindacati inetti a Rosalba che alla fine desiste , come i restanti mobbizzati, sono, ognuno in qualche modo, responsabili di questo sfacelo generale che è non solo economico ed ambientale, ma depauperamento morale sociale ed esistenziale.

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