Giuseppe Matulli: quando la politica era cultura, memoria e ragionamento

Il discorso di Pier Luigi Castagnetti in ricordo dell’uomo politico toscano

Pubblichiamo l’intervento che Pier Luigi Castagnetti ha fatto nel corso del funerale di Giuseppe Matulli, politico cattolico ,parlamentare, amministratore, docente, che nella vita ha alternato la responsabilità nelle amministrazioni locali ( vicesindaco a Firenze, sindaco a Marradi, assessore a Scandicci), l’impegno in Parlamento e al ministero della Pubblica Istruzione,  dando un contributo fondamentale negli organi regionali e nazionali prima della Democrazia Cristiana e poi del Partito Democratico .

Quando l’ho visitato una decina di giorni fa mi ha mostrato, con quel suo sorriso un po’ beffardo, il grosso volume “Guerra e Pace” di cui aveva da poco iniziata la lettura, con l’aria di chi dice: ”non morirò mica domani!” . E invece le cose sono andate purtroppo così. Nel titolo di quel capolavoro c’erano condensati anche il suo stato d’animo e i suoi pensieri degli ultimi mesi, la guerra e la pace appunto, più ancora della sua malattia. Ci sono persone infatti che la politica la studiano o la fanno, e altre per cui la politica è la vita. Lui era tra queste.

Aveva cominciato presto a occuparsi di politica, sin dai tempi del suo maestro e fratello maggiore Nicola Pistelli, come lui un politico intellettuale che si cimentava con l’esperienza amministrativa, per dimostrare che le due attitudini non sono incompatibili, anzi, sono complementari.

Dopo Pistelli l’altro  maestro e fratello maggiore fu Ciriaco De Mita. Aveva cominciato a lavorare con lui dal settembre 1969, al tempo del convegno di Firenze della Base, in preparazione dell’XI Congresso nazionale della DC, in cui il parlamentare irpino lanciò l’idea di un “Patto costituzionale fra le DC e le altre forze politiche sino al PCI”, per rigenerare il sistema democratico. Idea piuttosto ardita per quella stagione, che spiazzò persino Aldo Moro, nata da una riflessione fra alcuni giovani basisti, fra cui Beppe Matulli. Quando quindici anni più tardi De Mita diventerà segretario nazionale della DC, pensò subito a una strategia di rinnovamento che prevedesse la messa in campo di una squadra di giovani che vennero subito definiti i “colonnelli di De Mita”, una prima linea di discepoli fidati di cui Beppe rappresentava senza dubbio “il discepolo amato”. A De Mita restò sempre vicino e fedele, nella buona e nella cattiva sorte. Quando si trovavano si intendevano a memoria, “abbiamo le stesse categorie” diceva De Mita, e lo stesso maestro, Pistelli.

La Chiesa fiorentina  di quei primi decenni del dopoguerra aveva forgiato personalità enormi, era la Chiesa del Card. Della Costa, di don Bensi, don Facibeni, padre Turoldo, padre Balducci, don Milani, don Silvano Piovanelli e, soprattutto Giorgio La Pira, Mario Luzi, i fratelli Giovannoni,  Mario Gozzini,  Gian Paolo Meucci, la Firenze del “Dialogo alla prova”: qui si studiava e lavorava per smuovere l’Italia.   Per capirlo bene Beppe va situato in quel contesto, dove la politica coincideva con il “ragionare di politica”. Lo stesso successo che ha avuto nella critica e nella politologia il suo libro più importante, quello su De Gasperi (lo storico Piero Craveri lo ha definito “il miglior libro su De Gasperi che io abbia letto”, e Guido Bodrato “ho conosciuto con questo libro un  De Gasperi che non conoscevo”), è frutto di quella speciale attitudine di Matulli a contestualizzare e a scavare, sino a trovarne il senso e la radice profonda degli eventi storici e dei relativi protagonisti.

Nelle pieghe dell’esperienza parlamentare che abbiamo condiviso con alcuni colleghi che sono qui presenti, mi permetto segnalare la partecipazione, nel 1989 a Praga, al processo giudiziario prima e all’insediamento  alla presidenza della repubblica poi, di Vaclav Havel. Non risultò una cosa banale se, oltre la rigidità di una certa classe di diplomatici del tempo, con quella visita si riuscì a far percepire almeno a una parte della  politica italiana, la grande novità che abbiamo visto quando ancora era in incubazione e che si materializzò solo qualche mese dopo, della caduta del Muro. Eravamo in tre, Matulli, Michelangelo Agrusti e il sottoscritto, firmammo insieme il diario di quell’esperienza, ma il testo lo aveva scritto Beppe.

Infine, una parola sui suoi due ultimi incarichi “politici”: la presidenza dell’Istituto storico Toscano della Resistenza, e il lavoro nel carcere di Solliciano. Il primo era occasione e pretesto per le nostre lunghe telefonate degli ultimi anni.   Matulli era infatti un appassionato di storia, non solo locale, ne ha scritto molto come è noto ma, soprattutto, era convinto che alla nostra generazione fosse assegnato il compito di custodire la Memoria delle radici della nostra democrazia, di diventare cioè – ora che stanno scomparendo dalla scena molti protagonisti – noi stessi “testimoni dei testimoni”. Una memoria non settaria, non nozionistica, ma viva, da non fossilizzare cioè in una teca di un qualche museo, ma da rendere generativa e stimolatrice di nuovo impegno attraverso la formazione delle nuove generazioni. Interesse per le ricerche sulla Resistenza, in particolare dei sacerdoti e dei partigiani cristiani che lo avevano già portato a guidare il rilancio dell’ANPC, dopo la scomparsa di Giovanni Bianchi.  Abbandonato ogni settarismo e ogni pretesa di esclusiva, la memoria deve diventare sempre più  strumento di condivisione e costruzione di unità. Senza rinunciare mai alla verità storica.

E, infine, il volontariato nelle carceri. Bisogna imparare a stare dentro la sofferenza per capire l’umanità. E capire anche le tante sottovalutazioni, le tante omissioni di interventi legislativi appropriati sulle problematiche carcerarie nel passato, le tante involontarie coperture offerte a una burocrazia pubblica, che non di rado non riflette sulle ricadute sulle persone  dei propri errori e dei propri ritardi. In questo senso ho qualificato come politico un lavoro di volontariato scaturito da una genuina pulsione di carità cristiana.

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