Prosegue la carrellata di volti alla guida delle istituzioni artistico-culturali reggiane della nostra testata. Questa volta abbiamo incontrato il direttore generale e artistico della Fondazione I Teatri, Paolo Cantù, da poco riconfermato dopo i suoi primi tre anni di mandato.
La sua riconferma, arrivata nel pieno di questa fase così critica per i luoghi di spettacolo, arte e cultura, premia un triennio caratterizzato da grande attività fino all’inizio della pandemia e da quel momento da una sorte di battaglia in trincea per affrontare la situazione…
Devo ringraziare il Consiglio di amministrazione e i colleghi che hanno lavorato in questi tre anni con me. Questa situazione emergenziale dell’ultimo anno non ci ha dato ovviamente la possibilità di esprimerci al meglio. Avevamo per esempio iniziato un percorso sull’opera lirica, ma questi progetti richiedono tempi di ampio respiro e l’ondata pandemica ci ha costretti a rivedere i nostri piani. Sono comunque soddisfatto, cercheremo di consolidare nel prossimo triennio le linee di indirizzo impostate, anche se non nascondo che il 2021 sarà ancora difficile, ma sarà anche un anno importante sotto tutti i punti di vista rispetto ai temi dello spettacolo dal vivo.
L’ultimo Dpcm ha richiuso i luoghi di spettacolo dal vivo; lei si è espresso con toni interlocutori al proposito…
L’ultima chiusura ha creato un’ondata di reazioni nel mondo culturale. Io mi sono espresso subito perché non volevo essere frainteso, quando in 48 ore si è deciso di chiudere i teatri mentre la settimana prima s’era stabilito che in Emilia Romagna avremmo potuto continuare ad avere almeno duecento posti. L’ho trovato un criterio decisionale un po’ confuso. Siamo stati considerati ancora una volta sacrificabili prima degli altri perché non essenziali. Dopodiché, l’emergenza sanitaria ha la precedenza su tutto e noi, come appartenenti al nostro settore, non dobbiamo entrare nel merito di cosa si debba fare per fermarla sostituendoci a competenze diversamente specifiche.
Ma rivendichiamo un ruolo nella società, il senso delle mie parole era l’auspicio che la politica potesse affermare che la cultura e l’arte, gli artisti sono un valore in sé non accessorio o secondario rispetto ad altri settori. Ricordo sempre il discorso sull’importanza di questi temi fatto dalla Merkel a maggio, rispetto al quale in Italia non abbiamo avuto riscontri analoghi, se non in rarissime eccezioni, più che altro nella politica locale e regionale.
Anzi è sembrato addirittura rompersi il fronte degli artisti e operatori culturali, con risvolti derivanti da visioni socio-economiche e fin filosofiche divergenti…
Quando manca una politica coerente, forte, si scade nella guerra fra poveri. Anche da un punto di vista delle priorità, va ricordato che il settore dell’arte e della cultura, dello spettacolo è una filiera produttiva, occupa centinaia di migliaia di lavoratori, non ci sono dubbi che anche volendo considerare la distinzione marxista fra “struttura” e “infrastruttura”, decidere di sostenerlo non sia riducibile a mero esercizio intellettualistico sovrastrutturale. Non è un settore meno importante della cosiddetta “produzione”. Personalmente mi sono confrontato con la politica amministrativa cittadina, provinciale, regionale e devo dire che qui per fortuna rimane qualcosa, perché mi pare che più in generale ci si sia dimenticati della lezione gramsciana dell’ “egemonia culturale”. Tutto ciò è molto pericoloso, viviamo in un Paese dove una forza politica progressista decide di chiudere tutto tout-court e contestualmente vanno in piazza persone disperate che decidono di spaccare le vetrine. Sia chiaro, non voglio mettere semplicisticamente in relazione le due cose, ci sono mille aspetti da considerare, fino alla criminalità organizzata che strumentalizza le situazioni di crisi. È però chiaro che quando un titolare di una qualsiasi attività non riesce più a pagare i dipendenti e se stesso e a mantenere la propria famiglia e da un giorno all’altro deve chiudere, se in una società così ridotta non gli forniamo gli strumenti culturali necessari, potrà avere reazioni le più diverse, con differenze da aree territoriali e contesti naturalmente, che peraltro confermano la necessità di riflettere su questi aspetti.
La Fondazione I Teatri come ha deciso di affrontare la situazione?
Stiamo reagendo secondo un principio che è stato per me alla base delle nostre scelte fin dal’inizio di questa pandemia: come soggetto istituzionale, come “pezzo” della cultura cittadina affacciato anche sul panorama nazionale dobbiamo continuare a esserci.
Ciò facendoci carico di un ruolo pubblico, di risorse pubbliche, di una funzione nella città e non solo, della tutela dei lavoratori, quelle 60-70 persone che qui dentro lavorano tutti i giorni. Inoltre dobbiamo garantire gli impegni presi con gli artisti, che ancora una volta, da un giorno all’altro, noti e meno noti, si trovano senza un paracadute.
Proporremo pertanto alcuni progetti in streaming. Non tutto ciò che era in programma, che avrebbe poco senso, ma puntando prevalentemente sui progetti originali nati qui, che dovevano debuttare.
Dagli accessi contingentati alla chiusura totale proprio all’avvio delle stagioni…
Avevamo in animo di presentare ai primi di novembre le attività dell’inverno e primavera. Tra le anticipazioni già fornite c’era l’opening della stagione lirica previsto per il 4 e 6 dicembre, che dovremo ovviamente spostare. Si apriva con una coproduzione con Modena e il circuito lombardo; a Modena da lunedì cominceranno le prove e si arriverà con ogni probabilità alla trasmissione in streaming, alla fine di novembre. Poi la riprenderemo dal vivo noi, Ferrara… Questo a conferma del nostro sforzo a tutela dei lavoratori, dei rapporti con gli artisti. Andiamo avanti e proviamo a costruire lo stesso. Tra qualche settimana, sperando di essere nelle condizioni sociali idonee, vorremmo comunicare la nostra idea di stagione, di attività che sarà, che deriva da quella programmata ma subirà le necessarie modifiche. Recupereremo eventi del Festival Aperto e proporremo un cartellone unico che racchiuda le anime della Fondazione: Lirica, Concertistica, Prosa, Danza… Naturalmente, con le limitazioni negli accessi che immagino ci saranno. Mi auguro che si possa fare.
Il pubblico come potrà organizzarsi?
Adotteremo il meccanismo delle prenotazioni dei posti, non faremo abbonamenti per evitare i meccanismi legati a eventuali esborsi di denaro, rimborsi tramite voucher… cose che hanno già creato problematiche sgradevoli.
Un’importante convenzione di recente stipulata vi vede insieme a Istituto “Peri-Merulo” e Fondazione Nazionale della Danza nella creazione del “Polo delle arti”.
Ribadisco il piacere di questa collaborazione che sta nascendo grazie alla sintonia esistente fra chi si trova a interagire sul piano decisionale in queste importanti realtà, dinamiche che riscontro anche con altri soggetti come Palazzo Magnani, l’Arci e altri ancora non necessariamente istituzionali. Una volta riconosciuti i ruoli rispettivi e le peculiarità, in un territorio non c’è alcun problema di sovrapposizioni davanti all’importanza di queste sinergie. La convenzione stipulata ci permetterà di costruire una filiera tra formazione e produzione per dare prospettive ai giovani in queste difficilissime professioni, offrendo loro delle occasioni, a maggior ragione importanti in un momento come questo.
Del resto, nel festival Aperto abbiamo già avuto un esempio concreto di questo modello di rapporti, che prima non c’era e ora è diventato automatico: l’evento è naturalmente rinviato, ma proprio questo weekend doveva tenersi un “Site specific” della danza con Aterballetto, negli spazi del ridotto del Teatro. La cosa non s’è persa, si farà più avanti, ma nel frattempo con il direttore della Fondazione Danza, Gigi Cristoforetti, e il coreografo del progetto Diego Tortelli, s’è pensato di trasformarla in un’installazione video che stiamo producendo in questi giorni e che – non voglio svelare troppo – tra un po’ renderemo visibile in città. Un altro segnale per Reggio Emilia che vogliamo dare in questo momento, nel quale la mancanza di pubblico in teatro significa perdere l’essenza stessa del nostro lavoro. Oggi è importantissimo mantenere un filo, tenere accese delle relazioni che possano poi aiutarci a ritrovare la normalità quando sarà possibile.