Pistoia – Di Giacomo Leopardi è stato detto tanto. Forse, si sarebbe pensato, tutto. Il film di Martone porta alla luce un volto finora lasciato in ombra di questa straordinaria figura, di questo “giovane favoloso”. Un poeta. Molto di più: un filosofo. Molto di più: Giacomo Leopardi.
Non è un caso che il titolo dello stesso film, presentato al Festival di Venezia con abbondante successo, richiami le parole della Ortese: “in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso“. Non “il poeta”, nemmeno “il filosofo”, bensì “il giovane favoloso”.
Il film di Martone percorre la vita di Leopardi seguendo una direzione, verrebbe da dire un thèlos, ben preciso. Una parte della critica, spesso e volentieri semplicemente una folla di proto-intellettuali che di Leopardi pensano di aver capito tutto, si è espressa apostrofando il film come una mancanza di rispetto clamorosa. Nei confronti appunto del poeta, del filosofo e del pensatore.
Sta di fatto che Il giovane favoloso non ha la pretesa di esser considerato alla pari di migliaia di saggi, trattati, tesi e dottorati che negli anni hanno deframmentato il Leopardi e analizzato ogni sua molecola. Infatti, durante il film ci si accorge che anche nei bordelli napoletani era conosciuto il poeta. Lo stesso Ranieri sottolinea ad una prostituta: “È un poeta. Non gli dovete dire “ti amo”, gli dovete dire “s’agapò”…“. L’intento di Martone, a quanto pare, è piuttosto di portare alla luce un Leopardi più intimo, scevro da ogni etichetta letteraria, che rimarrà per sempre nel cuore di chi riesce a scorgerlo: l’essere umano.
È giusto lasciare spazio al poeta, poi al filosofo, poi al filosofo che non è poeta, poi al poeta che non è filosofo, ma va tenuto a mente che prima di tutto di un uomo si parla. Elio Germano si colloca in questa prospettiva con passione, carisma e perizia di recitazione. I frammenti di testo recitati, le poesie, le riflessioni sono mediali a scandire le fasi di maturazione di una personalità fuori dal tempo e dallo spazio, prima che ad abbagliare per la loro portata culturale.
La natura matrigna, il pessimismo, sono tutte idee partorite dalla mente di un uomo che amava la vita anche nel suo essere sgradevole. Tanto era innamorato della vita da dover odiare la sofferenza che la imbruttiva. Era pur vero che l’Illuminismo aveva dimostrato come migliorare di gran lunga la condizione umana, eppure, allora come oggi, c’erano dolori e delusioni e disperazioni che non potevano essere scacciate dal “lume” del progresso.
A volte – più di quanto si voglia ammettere – la consapevolezza di non corrispondere all’immagine che ha di noi chi amiamo fa male. Non rispondere alle aspettative della propria madre, ad esempio. Non a caso il Dialogo della Natura e di un Islandese vede protagonisti Giacomo e la altera Adelaide: “Quando vi offendo, quale sia il mezzo, io non me n’avveggo: come se io vi diletto o vi benefico, io non lo so. Se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”
Altre volte è l’amore non corrisposto. Altre ancora il ferire qualcuno senza averne l’intenzione. Insomma, ci sono tipi di dolore a cui niente può porre istantaneamente rimedio. La bellezza di Leopardi sta nel dirci che tocca a noi essere i fautori della nostra salvezza, anche se le ragioni per cui soffriamo sono irrazionali come la certezza d’esser imperfetti, ineluttabili come la Natura, immutabili come la Storia o addirittura schiaccianti come il Cosmo.
Se in quei momenti tutto ciò che riusciamo a pensare è chi sia stato a farci subire la vita contro la nostra volontà, la risposta di Leopardi può servirci da insegnamento, a prescindere da qualsiasi forma di cultura e di grado sociale a cui apparteniamo. Ciascuno deve trovare il proprio antidoto alla disperazione, senza annichilirsi o lasciarsi travolgere. Che sia Dio, lo studio, l’amore o qualunque altro cosa venga in mente.
A Torre del Greco, dove la sua esistenza volge al termine, suggerisce di comportarsi come la ginestra: “E tu, lenta ginestra, / che di selve odorate / queste campagne dispogliate adorni, / anche tu presto alla crudel possanza / soccomberai del sotterraneo foco, e piegherai sotto il fascio mortal non renitente / il tuo capo innocente…”
Innanzi al “mal che ci fu dato in sorte” dobbiamo chinare il capo, umili. Non ha senso abbandonarsi alla disperazione per guerre perse in partenza; è necessario piuttosto risollevare il capo, tenaci, e difendendo la propria dignità, rialzarsi una volta sconfitti. Questo, in breve, “Il giovane favoloso“.