L’annientamento degli esseri umani nei campi di sterminio nazisti passava anche dal triangolo di stoffa che ogni internato era costretto a portare sul petto: rosso per i prigionieri politici, marrone per gli zingari, rosa per gli omosessuali, verde per i criminali comuni, viola per i testimoni di Geova e la stella di David gialla per gli ebrei.
Aldo Rovai fu uno dei 40000 deportati italiani che finirono nei campi di concentramento nazisti, uno dei molti che portava sul petto il triangolo rosso riservato agli oppositori politici.
A 31 anni, nel cuore della notte e con un figlio di 18 mesi di nome Virgilio, Aldo venne prelevato dalla sua casa a Montelupo Fiorentino, in provincia di Firenze e portato a Mauthausen, dove riuscì a sopravvivere 14 mesi fino alla Liberazione del campo.
“Lavoravano 12 ore al giorno – racconta il figlio Virgilio – e da mangiare veniva dato loro al mattino mezzo litro di una sostanza liquida chiamata “caffè nero”, a pranzo una ciotola di roba liquida dove chi aveva fortuna trovava pezzetti di foglie di cavolo o di rapa, e la sera una fettina di pane con della margarina. In pratica una quantità di calorie insufficienti anche per il fabbisogno di una persona che sta seduta su una poltrona tutto il giorno. Infatti quando mio padre ritornò da Mauthausen pesava solo 34 chili”
Virgilio Rovai, che oggi è membro dell’Aned, l’Associazione nazionale degli ex deportati politici, racconta da anni l’esperienza di suo padre Aldo nelle scuole, ha accompagnato molte comitive a Mauthausen e ricorda instancabilmente quanto gli ex deportati, ormai rimasti in pochi per ragioni anagrafiche, ripetano insistentemente una cosa, soprattutto ai giovani: “dimenticateci solo quando nel mondo non ci saranno più guerre.”
Perché suo padre venne deportato?
Mio padre veniva da una famiglia antifascista, tant’è che mio nonno fu ammazzato a Montelupo Fiorentino dai fascisti nel 1921; venne deportato la notte tra il 7 e l’8 marzo del 1944, insieme ad altre 21 persone della zona.
Che tipo di attività antifascista svolgeva suo padre?
Mio padre informava i giovani a non presentarsi alla leva militare oppure cercava di spiegare loro qualche libro che lui stesso leggeva sulla creazione del movimento operaio.
A Mauthausen verso che tipo di lavoro venne indirizzato?
Nel lager inizialmente fu messo a fare lavori generici, per esempio a sterrare la strada, poi dopo qualche tempo si ferì volontariamente ad una gamba e fu mandato alla pulizia delle latrine.
Si ferì di proposito?
Si, mi raccontava che non ce la faceva più e che l’unico modo che là si aveva per riposarsi un po’ era riuscire ad arrivare all’infermeria; ma a questa zona si accedeva solo se si aveva la febbre altissima o una ferita, quindi mio padre si conficcò un piccone in una gamba e, dopo la pulizia delle latrine, venne spostato al blocco degli inabili al lavoro in attesa di essere mandato alla camera a gas.
E come riuscì a salvarsi?
Fu salvato da un certo Giorgio, un polacco, che gli disse le seguenti parole : “Stasera quando arrivano le SS e faranno un certo discorso , tu alza la mano”. Mio padre, non avendo imparato il tedesco, non avrebbe mai compreso quel discorso, e alzò la mano come gli era stato detto da quel Giorgio. Chi fece come lui fu preso e portato in un'altra baracca, mentre chi tenne la mano abbassata, fu ammazzato. Questo avvenne la notte del 22 aprile del 1945 ed è un episodio che, oltre ad essere stato raccontato da mio padre, è scritto anche sul libro di Vincenzo Pappalettera dal titolo “Nel lager c’ero anche io”.
Che cosa significava allora quel gesto della mano?
Questo ce lo ha spiegato anni dopo Giorgio, l’uomo polacco, quando lui e mio padre si incontrarono di nuovo. In pratica questo alzare il braccio consisteva nell’offrirsi volontari per andare a lavorare. In questo modo le SS cercavano di recuperare qualche forza lavorativa dalla baracca degli inabili al lavoro, dove si trovava mio padre insomma.
Suo padre vi parlava spesso della sua prigionia una volta tornato?
Come tanti deportati, i primi tempi non ne parlò molto. Non è che non ci riuscisse, in realtà lui mi spiegava che ne avrebbe parlato anche volentieri una volta tornato a casa. Ma capitava che al racconto della fame sofferta nel lager la gente rispondesse che anche qui in Italia si era sofferto la fame, che erano mancati il pane e il latte. Diciamo che mio padre si chiedeva in che modo avrebbe mai potuto fargli capire cosa fosse davvero successo là.
Dopo la deportazione suo padre riuscì a reinserirsi nella società, anche a livello lavorativo?
Per mio padre non fu troppo difficoltoso; essendo un vetraio specializzato, un maestro soffiatore, il lavoro riuscì a trovarlo abbastanza facilmente; invece molti altri ex deportati hanno avuto tante difficoltà a reinserirsi perché fisicamente e psicologicamente faticavano a riprendersi da quell’esperienza.
Grazia D’Onofrio