Marco Travaglio ha ricordato ieri sul Fatto il racconto a Servizio Pubblico di Matteo Renzi: la teoria di giornalisti Rai che, a microfono spento, prima di prostrarsi al suo cospetto, gli riferivano “di essere sempre stati con lui”. Gente che non aveva né mai visto né mai conosciuto.
Senza arrivare a tanto e a certi livelli, c’è uno strumento ormai di uso quotidiano che permette a molti colleghi di trasformarsi, da morigerate macchine da desk, in spudorate fucine di partigianeria politica una volta approdati su facebook. Con buona pace delle decenze minime suggerite dalla deontologia di base. Il fenomeno, vecchio come il mestiere e più o meno carsico, più o meno evidente, è esploso in tutta la sua leccaculistica virulenza in occasione delle amministrative locali. In diversi, naturalmente sempre con la puzza sotto il naso e pronti a impartire a tutti lezioni comportamentali, hanno fatto a gara nel postare foto e frasi di inequivocabile confessione di voto e nel condividere tutto ciò che l’aspirante amministratore prescelto (o i personaggi del suo giro) immettesse nel circolo mediatico foss’anche una deiezione improvvisa per inaspettata colite.
Lo schieramento, anzi lo schienamento a colpi di saporiti slurp è diventato così, in questi tempi di crisi nel e del mestiere, lo sport prediletto anche di molti giornalisti nostrani. Alcuni per sincera (?) adesione al carro del vincitore, altri ancora a causa di una più comprensibile paura di essere tagliati fuori dai circoli che contano (quali poi?), quando non addirittura di non riuscire a trovare più lavoro alcuno. Manco da portavoce della Socrem. Cosa che effettivamente, nella civilissima Reggio Emilia, è già accaduto.
Auguriamo a tutti questi volontari della saliva, che i loro prescelti ottengano il risultato che meritano: la lingua si sarà così rafforzata non invano come si conviene ad ogni muscolo usato assai. Che la faccia è andata perduta da quel dì.