Stamani ho tenuto alla Scuola Superiore della Magistratura di Castelpulci una conversazione su informazione e giustizia. Ne riporto qui il testo base come contributo a un dibattito così cruciale per noi giornalisti.
Le questioni che riguardano i rapporti fra magistrati e giornalisti sono passate per un certo tempo anche da casa mia. Mio padre è stato un magistrato, prima sostituto procuratore, poi giudice di Corte di Appello e infine presidente del Tribunale per i minorenni dal 1966 al 1985. Siamo dunque in una fase antecedente al 1992 – 1993, anni dell’inchiesta “Mani Pulite” che avviò la fine della configurazione politica quale si era venuta a formare dal dopoguerra in poi, per entrare in un’altra fase, impropriamente definita di seconda Repubblica, ma che invece si può molto più propriamente definire di caos istituzionale, dal quale non siamo ancora usciti.
Le poche riforme fatte in questi anni, mi riferisco per esempio al Titolo V della Costituzione, hanno contribuito solo a peggiorare la situazione, mentre di fatto nulla è stato cambiato nei meccanismi fondamentali della nostra Repubblica.Non è questa la sede per approfondire questo tema. Ne ho accennato solo perché con Tangentopoli anche il rapporto fra informazione e magistratura sostanzialmente cambia. Negli anni successivi regole sono state messe sulla carta sia da parte dei giornalisti che da parte della magistratura, ma esse non sono servite a uscire da un conflitto latente e permanente per di più aggravato dai conflitti istituzionali fra esecutivo e giustizia.
Qui io presento una tesi che ha a che fare con i mali dell’Italia dove si fanno molte leggi, ma pochissimi provvedimenti per attuarle. Infatti, se in qualunque settore alle regole, anche draconiane, non si associano misure concrete, organizzazione, tecniche specifiche che mettano la gente in grado di rispettarle, esse avranno sempre un effetto limitato solo alle persone che avvertono dentro di sé un forte senso dello Stato e del bene pubblico. E non sono la maggioranza.
Scusate la premessa e veniamo alla storia. La regola di comportamento di mio padre nei confronti della stampa era molto semplice: con i giornalisti non si parla. Che facciano il loro mestiere, che indaghino, che ottengano le loro notizie dalle fonti che trovano, purché ovviamente scrivano il vero.
Ma il magistrato non parla con la stampa. Con una rara eccezione da usare con grande cura e come extrema ratio: la stampa può contribuire a fare giustizia, perché si rivolge all’opinione pubblica, nel caso in cui una certa indagine, un certo processo, subisca pressioni indebite, o sia oggetto di manovre incontrollabili. Quando, cioè, c’è il rischio che non si faccia giustizia per interventi illeciti dall’esterno.
Il sistema dei media allora non era così esteso, forte, aggressivo come oggi. Non c’era, per esempio, alcun filtro per i giornalisti, quando andavano negli uffici giudiziari, e i cronisti entravano e uscivano dalle porte di tutti i magistrati con tanti buongiorno e buonasera.
Erano rare le fughe di notizie e la competizione fra le varie testate giornalistiche avveniva a monte del giro in procura. Al magistrato si chiedeva di confermare o di smentire particolari ottenuti in altri contesti investigativi, polizia e carabinieri, o dagli avvocati difensori. Dunque il magistrato diventava un’istanza di verifica assolutamente fondamentale. Era lui che poi spiegava al giornalista che qualche particolare di cui era a conoscenza sarebbe stato bene non pubblicarlo per non danneggiare l’inchiesta.
Così il momento di gloria del cronista giudiziario era il dibattimento, quando si potevano leggere gli atti: lo spettacolo era tenuto nel suo luogo deputato, il processo pubblico. La cronaca giudiziaria consisteva, dunque, sostanzialmente nel riportare la sentenza del giudice istruttore e seguire il dibattimento .
Questa situazione teneva anche perché il lavoro dei cronisti nel periodo del terrorismo in qualche modo era di aiuto al lavoro degli investigatori, anche se alcune informazioni sulle inchieste ottenute non in procura o informazioni che potevano dare notizia di reato portavano continuamente i giornalisti in conflitto con la magistratura inquirente che pretendeva di conoscere l’identità della fonte, che i giornalisti consideravano parte del loro segreto professionale. In quel periodo molti sono stati gli arresti di giornalisti che si rifiutavano di rivelare l’identità della fonte. Faceva parte del gioco.
Poi la situazione cominciò a cambiare, come cambiava la società italiana. I reati dei cosiddetti colletti bianchi cominciarono ad avere un peso crescente fino ad arrivare alle inchieste del pool di “Mani pulite”. E’ in questo momento che cominciano a entrare in crisi le vecchie regole, i vecchi comportamenti. Per riuscire a colpire i corrotti e non essere bloccati da operazioni e pressioni illecite i giudici di mani pulite fecero largo uso di quell’eccezione di cui parlava mio padre, che finì per diventare l’ordinarietà: la stampa, dunque l’opinione pubblica, può contribuire a fare giustizia perché la pubblicità ferma la mano a chi mette in atto manovre per bloccarla.
Non solo, i procuratori di Milano utilizzavano strategicamente i media anche per rompere le omertà e aprire la porta a testimoni e colpevoli. Intervenivano, inoltre, con dichiarazioni e conferenze stampa per contrastare tentativi legislativi volti chiaramente a fermarli. Francesco Saverio Borrelli dichiarò anche a me, allora giornalista del Sole 24 Ore a Milano, quanto importante era stato il sostegno dell’opinione pubblica per il successo delle indagini.
Vediamo allora cosa succede. Nel 1993, l’Ordine dei giornalisti approvò un nuovo codice di deontologia. L’esplosione di Tangentopoli, fece arrivare sui tavoli delle redazioni a ritmo serrato notizie sulle indagini riguardanti politici e manager.
Talmente serrato che divenne difficile verificare le notizie, cosa peraltro che non era mai stata definita esplicitamente come un obbligo dei giornalisti.
Fu un’epoca di grandi eccessi e di grandi discussioni, in redazione, sull’opportunità di pubblicare o meno, in un regime di concorrenza serrata, notizie non accuratamente verificate. Naturalmente la situazione spingeva molte forze politiche a intervenire utilizzando il potere legislativo Si trattava allora di contrastare un rischio analogo a quello dei magistrati perché diversi esponenti del Parlamento, provenienti da tutti gli schieramenti, presentarono proposte di legge per porre un freno alla pubblicazione delle notizie sulle indagini.
Il codice deontologico doveva rimettere su binari corretti il lavoro dei cronisti in nome della terzietà dei giornalisti rispetto ai poteri. Ma bastava inserire precise indicazioni per salvaguardare l’indipendenza della stampa e mantenerla in grado di proseguire la sua missione di garante del diritto all’informazione previsto dall’articolo 21 della Costituzione?
La questione del rapporto fra informazione e magistratura è ancora aperta, perché il sistema dei media è rimasto prigioniero, del conflitto costante e senza esclusione di colpi fra esecutivo, i governi Berlusconi, e giudiziario, aggravato dal fatto che il capo dell’esecutivo era proprietario di una larga fetta di mezzi di informazioni, fra cui la televisione commerciale oltre a controllare la gran parte dell’emittenza pubblica.
In poche parole la concorrenza sulle notizie era condizionata dal fatto che i mezzi controllati dal capo del governo pubblicavano preferibilmente notizie a lui favorevoli, a maggior ragione se andavano contro l’ordine giudiziario. Dall’altra si rispondeva utilizzando i mezzi di informazione per dare notizie che si temeva ci fosse l’ interesse ad occultare.
Innumerevoli sono gli episodi di questo conflitto aspro e senza esclusione di colpi che ha messo a dura prova l’intero ordinamento dello stato democratico.
Consapevoli di questo caos informazione-magistratura, anche la magistratura decise nel 2006 di dotarsi di un codice di comportamento, entrato in vigore con il Decreto Legislativo 106/2006 in materia di riorganizzazione dell’ufficio del Pubblico ministero.
Ecco le nuove regole:
1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione.
2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento.
3. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio.
Si tratta di regole che sono state fortemente osteggiate dai giornalisti, che le considerano in netto e radicale contrasto con l’articolo 21 (II comma) della Costituzione. La Costituzione disegna una professione giornalistica libera, non soggetta ad autorizzazioni e censure.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 9/1965 ha scritto parole fondamentali sull’impossibilità di porre limitazioni sostanziali alla libertà di manifestazione del pensiero: “La libertà di manifestazione del pensiero è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell’interpretazione giuridica”.
Comunque tutto bene, le carte deontologiche sono necessarie e ognuna delle due categorie le ha messe in campo. Ma il problema vero è molto più concreto.
E’ cambiata la situazione dopo l’entrata in vigore dei due codici di comportamento? No non è cambiata. Lo scontro politica/giustizia è ancora in atto (basta leggere i giornali sulle inchieste di questi giorni). I giornalisti continuano a difendere con le unghie e con i denti i loro spazi di azione.
Si tratta, dunque, di intervenire, come dicevo, in modo concreto creando “la tecnica“ giusta che possa far trovare un terreno comune di dialogo fra giornalisti e magistrati.
Vediamolo dalla parte dei secondi. Poco tempo dopo aver fatto il cronista giudiziario, sono diventato corrispondente dell’Ansa dalla Germania. Era il 1980 e quando ebbi a che fare nel mio lavoro con la magistratura tedesca (per esempio nel caso clamoroso dei falsi diari di Hitler), mi resi conto come l’organizzazione dei rapporti con la stampa fosse organizzata, secondo i canoni professionali dell’una e dell’altra parte.
Vale a dire: un addetto alle relazioni, che risponde alle richieste di tutti i giornalisti, a qualunque testata appartengano, l’uso tempestivo degli strumenti giornalistici che non sono solo il comunicato stampa, e la conferenza stampa.
Ve ne sono anche altri di cui vi voglio parlare come per esempio il Briefing a codice: si tratta di incontri con la stampa prevalentemente di background, nel quale il magistrato spiega i dettagli della vicenda.
Il codice indica il livello di riservatezza. I giornalisti sanno bene che 1 significa possibilità di citare la fonte, 2 che la fonte deve essere indicata genericamente come ambienti giudiziari, 3 che le cose possono essere pubblicate senza indicazione di alcuna fonte e 4 l’assoluto divieto di pubblicare le informazioni, che devono essere considerate un aiuto alla comprensione di quanto accade.
Il giornalista che non rispetta il codice non viene più invitato a questi briefing che sono importanti perché l’informazione sia corretta e precisa e non venga filtrata da altre fonti interessate.
Il problema dunque non è tanto che si emettano grida manzoniane minacciando sanzioni, ma che si organizzino gli uffici giudiziari in modo competente perché abbiano un corretto rapporto con la stampa.
Certo resterà sempre il canale confidenziale con il giornalista, ma si è visto a cosa porta questo rapporto confidenziale per esempio nell’incredibile caso del presidente della sezione della Cassazione Antonio Esposito che rilascia dichiarazioni discutibili a un giornalista ritenendo che non le avrebbe pubblicate, perché amico. Il giornalista non è mai un amico nel momento in cui entra in possesso di una notizia. Ma questo i magistrati devono saperlo.
Occorre, perciò, secondo me, che la Scuola superiore moltiplichi ai neo magistrati (oltre quelli che già ha in programma) perché conoscano la tecnica con la quale ci si rapporta con i media, il modo in cui lavorano etc. Il resto è lasciato alla sensibilità etica e professionale delle due categorie.