Giornalismo di ieri e di oggi: quando vince la cattiva notizia

Firenze – In un mio libro uscito di recente (Il ragazzo del secolo breve) racconto come sono entrato in contatto col  giornalismo fino a farne parte. Il giornale del mio esordio fu “Il Nuovo Corriere”, un giornale fiorentino nato nei giorni della liberazione di Firenze, ultimo derivato dopo una serie di passaggi di proprietà e di trasformazioni del “Corriere Alleato”, organo  dell’esercito angloamericano. Per una serie di circostanze che viste con gli occhi di oggi hanno dell’incredibile, un giornale delle truppe angloamericane tra tutti i partiti del CLN finì in modo del tutto normale e alla fin fine condiviso nelle mani del Pci. Ma  tutto questo è raccontato con ricchezza di particolari, insieme ad altre vicende riguardanti la stampa fiorentina dell’epoca, in un libro scritto molti anni fa ma sempre attuale da Piero Meucci.

Non è il caso ora di parlare delle caratteristiche tecnico formali e della fisionomia culturale e politica del “Nuovo Corriere”, anche se quel giornale sicuramente lo meriterebbe. A me basterà dire, compiendo un salto di una settantina di anni, che a Romano Bilenchi, il suo direttore, e ai suoi collaboratori riuscì allora ciò che oggi risulta molto faticoso e quasi impossibile: la collaborazione di un vasto e differenziato  arco di forze progressiste. Dai comunisti, appunto, ai socialisti, agli azionisti, ai cattolici sensibili alle questioni sociali.

Se nel mio libro parlo del “Nuovo Corriere”, non faccio praticamente alcun cenno, per ragioni di economia narrativa, ad un altro giornale in cui ho lavorato molti anni e che  fu, anch’esso, un giornale importante e a suo modo unico: alludo a “Paese Sera” e al grande successo di pubblico che ebbe – un pubblico di lettori assai differenziato: dall’intellettuale, all’operaio, al bottegaio; dal burocrate ministeriale e capitolino, agli addetti all’industria dello spettacolo; dalle commesse alle sartine, all’aristocratico, al borgataro.

Anche “Paese Sera” apparteneva al PCI e pure quel giornale riuscì ad amalgamare un corpo redazionale nella sua totalità abbastanza differenziato per quanto riguardava le opinioni politiche, che riusciva abbastanza facilmente a coesistere con un nucleo centrale più idealmente coeso e affiatato. A rendere possibile e facilitare un simile modo di stare insieme secondo me contribuì il comune ossequio per Sua Maestà la Notizia, che se è il capitale più prezioso per qualsiasi giornale lo è ancora di più per un giornale del pomeriggio.

Veri e propri cultori della notizia e politicamente non proprio affini tra loro furono ad esempio alcuni direttori, tra i quali citerò Fausto Coen, espressione della  comunità ebraica romana di cui faceva parte, Arrigo Benedetti, proveniente dalla direzione dell’Europeo e dell’Espresso che politicamente definirei un liberalsocialista e Peppino Fiori, ex senatore della Sinistra indipendente, biografo di Gramsci, che probabilmente conservava tra i suoi caratteri identitari alcuni tratti del Partito Sardo d’Azione.

Ma l’aspetto più vistoso e interessante della eterogeneità del  corpo redazionale di “Paese Sera” – ed anche la sua principale spiegazione –  era la estrema varietà dei caratteri  e delle provenienze anche ma non solo territoriali. Tra coloro che hanno transitato dal giornale e spesso vi sono rimasti a lungo, fino alla sua infausta chiusura  troviamo ad esempio Gianni Rodari, probabilmente il più grande scrittore italiano per ragazzi della nostra epoca, Giorgio Forattini, disegnatore e curatore delle pagine affidate alla mia responsabilità (gli Interni) che si improvvisò vignettista proprio mentre aspettava che io gli consegnassi gli articoli, i titoli e le foto da inviare in tipografia.

La vignetta più celebre, con Fanfani trasformato nel tappo di una bottiglia di  champagne che vola in aria dopo il risultato per lui negativo del voto referendario sul divorzio, fu confezionata proprio sotto i miei occhi. Altra figura di spicco Ruggero Zangrandi, in gioventù compagno di scuola e amico fraterno del figlio maggiore del Duce, frequentatore  quasi giornaliero di Villa Torlonia, la residenza dei Mussolini  e assai apprezzato da quest’ultimo per le sue qualità intellettuali. Negli anni immediatamente precedenti la guerra Zangrandi si era messo in testa, insieme ad altri giovani in camicia nera, di riformare il fascismo dall’interno. Il progetto fece anche un certo tratto di strada, ma si arenò quando fu pattuita l’alleanza con Hitler e cominciarono a soffiare venti di guerra. Zangrandi e alcuni suoi giovani collaboratori furono imprigionati  e poi deportati in Germania.

Potrei continuare a lungo nella perlustrazione del caleidoscopio di figure singolari, in qualche caso addirittura eccentriche, che popolarono “Paese Sera”. Mi limiterò a citare il collega Stefano Petrovic Njegosh, principe ereditario del Montenegro, nipote  della Regina Elena. Durante la guerra egli venne in Italia per studiare architettura e soggiornò al Quirinale, ospite della zia. A “Paese Sera” fu caporedattore e responsabile del settore grafico. Nonostante i natali regali, egli era in tutto e per tutto uno di noi, sebbene conservasse nella figura e nei modi una nota di signorilità autentica. Politicamente in origine fu socialista lombardiamo. Poi quando fu costituito il PSIUP aderì a quel partito.

Concludo questo breve viaggio sentimentale e anche nostalgico citando altre due figure singolari di quel variopinto mondo che fu la redazione centrale di “Paese Sera”,  quelle di due giornalisti o aspiranti tali che poi divennero invece due registi cinematografici, entrambi di un certo successo: Dario Argento e Pasquale Squitieri. Il primo dei due fu per alcuni anni il vice del critico cinematografico del giornale, Aldo Scagnetti, grande amico di un caro collega fiorentino, Sergio Di Battista; Squitieri invece si era incaponito di voler fare il cronista di nera e per un paio d’anni in effetti lo fece prima di darsi al cinema anche lui.

Ma basta con la rievocazione del passato e la nostalgia e veniamo con pochi rapidi cenni  allo stato dell’informazione oggi. Quando sono diventato giornalista io, quasi settanta anni fa, una delle raccomandazioni più insistenti rivolte ai neofiti era di cercare di arrivare prima degli altri. La rapidità, insomma, era uno dei modi per battere la concorrenza: uno, ma certamente non il solo e neppure  il più importante. Avendo smesso da tempo l’attività giornalistica quotidiana, non so se  l’anticipazione  nella diffusione delle notizie abbia lo stesso valore di prima.

La loro circolazione è diventata così vorticosa e febbrile e la loro quantità così esorbitante, da indurmi a pensare che forse l’effetto della precedenza non sia più avvertibile. Questa  potrebbe essere una delle conseguenze della rivoluzione tecnologica ed informatica che caratterizza la nostra epoca. Una, ma,  come ho detto prima, certamente non la più importante. Ben altre sono le ricadute dei mutamenti intervenuti negli anni più recenti, press’a poco in coincidenza con l’inizio del nuovo secolo, nel mondo della comunicazione, a causa sopratutto della proliferazione inaudita degli strumenti che la rendono smisuratamente abbordabile e riproducibile.

Come abbiamo visto, fino ad alcuni anni fa regnava  incontrastata la notizia. La quantità, la qualità (cioè il modo in cui la notizia è confezionata), l’esclusività delle notizie erano il fiore all’occhiello del giornale e ne determinavano in buona parte le fortune. Ancora oggi è così? Direi proprio di no. La produzione e la circolazione delle notizie sono diventate così vorticose e febbrili e la loro quantità così esorbitante che non si possono fare paragoni tra il passato e il presente.

La causa di tutto è la proliferazione inaudita degli strumenti che rendono le notizie facilmente abbordabili e agevolmente riproducibili. Siamo arrivati al paradosso che ciò che in teoria poteva essere considerata una conquista – la facile fruizione dell’informazione – rischi di trasformarsi  in una disgrazia. Non siamo ancora a questo punto, ma il pericolo è grave e se non vogliamo che l’informazione, giustamente considerata dai nostri padri il sale della democrazia, divenga il suo cimitero, bisogna porre mano con urgenza ai rimedi.

Intendiamoci bene, notizie fasulle, confezionate ad arte, qualche volta addirittura inventate di sana pianta c’erano anche prima. Ciò che oggi impressiona è la quantità e la frequenza, dovute in gran parte proprio a quegli strumenti che permettono a ciascuno di propagare notizie o di manipolarle. La crescita esponenziale, ma sopratutto la gravità crescente degli episodi di bullismo consumati tramite socialmedia  ne sono una preoccupante testimonianza. Siamo arrivati al punto che una persona qualsiasi può decidere, contro l’opinione degli scenziati e dei medici, che una determinata pratica medica faccia male e in un batter d’occhio divulghi questo suo verbo all’infinito con conseguenze facili da immaginare.

 Termino con le parole di un grande giornalista e divulgatore mio coetaneo, Piero Angela. Dopo aver rilevato, in una recente intervista, che “siamo ancora dentro una grande rivoluzione tecnologica che sta cambiando radicalmente i nostri stili di vita e i nostri modi di pensare, egli si chiede “se siamo sufficientemente maturi per gestire tali strumenti”. E poi prosegue: “La rete non è solo un consorzio di illuminati, un’accademia di liberi pensatori. Ci trovi di tutto. Gente aggressiva, frustrata  o credulona.”

La sua conclusione  non è proprio incoraggiante. Alla richiesta se pensi a qualche forma di controllo, egli ha infatti risposto così: “Come fai? Qualunque blogger può vomitare in rete ciò che vuole. Ci vorrà comunque molto tempo per venirne a capo….”

Foto: Mario Talli

 

 

 

 

 

 

 

 

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