Firenze – La guardiamo sbalorditi, noi figli di un altro secolo, mentre giura nelle mani del Presidente della Repubblica. E’ la prima volta nella storia d’Italia che una donna arriva al vertice del governo. Nello stesso tempo non si può non pensare alle infinite occasioni fallite che la sinistra avrebbe avuto di scrivere un nome femminile sul marmo degli annali. Come ha fatto lo schieramento progressista a restare fuori da un evento così epocale? Ci viene fatto quasi di paragonarlo – seppure su scala ben diversa – all’elezione di Barack Obama, primo afro-americano alla Casa Bianca.
Per la forza del destino, del materialismo storico, dei valori della democrazia, delle lotte per i diritti delle donne etc, non doveva essere un’esponente della sinistra politica (in senso ampio) a rompere il più importante dei tetti di cristallo? Invece no, una donna di 45 anni, fondatrice di un partito di estrema destra, portatrice dei valori più tradizionalisti (Dio, Patria, Famiglia) ha imposto la sua leadership non solo all’interno del suo schieramento, ma anche a una terra che “percossa e attonita al nunzio sta”. Nel senso positivo.
Un evento che suscita una profonda riflessione. Progressismo e conservatorismo, se guardati al microscopio all’interno delle forme organizzative che assumono, non stanno nettamente separati da una parte o dall’altra, ma restano intrecciati come lo ying e lo yang del simbolo taoista. E se i principi perseguiti e proclamati non vengono tradotti in una autentica democrazia del rispetto delle regole della parità di genere e del riconoscimento del talento e del merito al di là delle capacità manovriere e delle posizioni acquisite, il risultato è la paralisi e la conservazione.
I limiti del partito democratico sono emersi con drammatica evidenza anche in questa tornata elettorale cruciale per i cambiamenti che porterà all’intero sistema politico italiano. Raramente così poche donne del Pd sono entrate nel Parlamento come conseguenza anche della riduzione del numero dei seggi che ha ristretto i margini di successo delle candidate.
Giorgia Meloni non viene da una tradizione di lotte per i diritti delle donne, anche se in qualche modo ne è stata aiutata. La neo premier ha potuto sfruttare condizioni di partenza eccezionali. E’ stata lei a guidare la scissione dal Popolo delle Libertà di Silvio Berlusconi per creare i Fratelli d’Italia che all’inizio tutti consideravano l’ultima trincea dei reduci di ideologie postfasciste destinata a rimanere marginale prima di scomparire.
Al contrario è accaduto che i soci fondatori maschi, con una saggezza derivata soprattutto dall’esperienza di minoranza e marginalità, hanno accettato e sostenuto la leadership della ex “piccola” del fronte conservatore, creandole un ambiente favorevole alla crescita, perché avevano fiducia che avrebbe portato avanti le loro convinzioni e le loro tradizioni. Un passaggio generazionale senza conflitti né ribellioni né mutamenti radicali di visione e valori.
Poteva accadere nel Pd, erede di un costume antico fatto di patriarcato e senso di superiorità intellettuale, dove le donne sono state per lo più cooptate ed erano poche quelle che si conquistavano spazi di gestione e di ispirazione della linea politica? Chi ha mai seriamente pensato a una segretaria donna?
Così assistiamo alla nascita di un nuovo governo orgogliosamente politico guidato dalla destra del Paese con un risultato che è già importante sul piano dell’immagine e del simbolo: neanche i più acerrimi avversari possono negare la svolta rappresentata da Giorgia Meloni, prima donna a guidare l’Italia.