Andrea Canova intervista Gilda Policastro
Interviste che intendono far conoscere qualcuno a qualcun altro, come se due sconosciuti si incontrassero per la prima volta. L’intervistato ha la più assoluta libertà di dire o non dire ciò che vuole di se stesso. In queste interviste non si cerca il clamore, il gossip, lo shock.
Si tratta di interviste scritte dall’intervistato, dunque non orali, per ovviare al brutto costume italiano di “modificare” il detto dell’intervistato, a volte con scopi non ben chiari, o fin troppo.
Rispetto alle specificità professionali dell’intervistato, le novità professionali non saranno dimenticate.
Gilda Policastro è una scrittrice e una critica letteraria tra le più “temute” della penisola. Senza sconti e mediazioni con il mercato di facile consumo, Gilda Policastro ha fatto del rigore compositivo una vera e propria necessità vitale.
Biografia
Gilda Policastro insegna Letteratura italiana all’Università e Scrittura creativa presso l’Accademia “Molly Bloom”. Ha curato la rubrica “La bottega della poesia” per il quotidiano “la Repubblica”, è redattrice del sito “Le parole e le cose. Letteratura e realtà”, collabora col quotidiano online “Linkiesta”. Ha pubblicato libri di poesia, tra cui Non come vita (Aragno, 2013) e Inattuali (Transeuropa, 2016), romanzi tra cui Cella (Marsilio, 2015) e La parte di Malvasia (La Nave di Teseo, 2021), saggi tra cui L’ultima poesia: scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi (Mimesis, 2021). Di prossima pubblicazione, il nuovo libro di poesia, La distinzione.
– Chi è Gilda Policastro?
Una che scrive, che legge, che vive praticamente al pc, con poche eccezioni.

– Che tipo di formazione ha Gilda Policastro? Studi, letture, mentori.
Liceo classico, Lettere antiche all’università con deviazione a metà percorso in favore di Lettere moderne per laurearmi in Letteratura italiana con Giulio Ferroni, relatore della mia tesi su Dante e le catabasi antiche. Poi dottorato a Siena con Romano Luperini, sulle catabasi parodiche della modernità. Della formazione, pure molto diversa, degli anni romani e di quelli senesi ricordo con particolare affetto alcuni docenti, a parte i due che ho già menzionato: Luigi Enrico Rossi, Luca Serianni, Achille Tartaro, Franca Angelini. Tutti purtroppo scomparsi, alcuni tragicamente come Serianni, con cui diedi il mio ultimo esame, peraltro in condizioni drammatiche, perché un’otite mi impediva di sentire distintamente le domande e dovevo leggergli il labiale. Ma riuscivo perfettamente, scandiva benissimo ogni singola sillaba. Ho ancora vivissimo, poi, il ricordo delle lezioni di Rossi sull’Edipo Re, quelle di Tartaro sull’autobiografismo di Dante, il corso sull’Alcesti di Samuele di Savinio della Angelini. Eravamo in centinaia, e il momento dell’esame era l’unico contatto col docente. Quello con Rossi, in particolare, era traumatico: l’esame durava due ore, e prevedeva il rito del tè coi biscottini. Esame severissimo, che per me si chiuse con la domanda: chi vinse l’agone tragico l’anno in cu Sofocle presentò l’Edipo Re. Credo di non aver mai saputo la risposta, ma oggi potrei googlarla, in effetti.
– Qual è la poetica di Gilda Policastro?
Quello che provo a fare nella scrittura, in poesia come in narrativa, è indagare il tema della costrizione, nelle sue più diverse declinazioni. Ho un luogo totemico, l’ospedale, sin dai miei esordi (col romanzo Il farmaco): mi interessa come collettore di storie, ma anche come specimen di una esistenza frammentata e per certi versi democratica: dietro i pigiami degli “stesi”, come definisco i malati (anche sulla scorta di Mann), si appiattiscono le gerarchie, i vissuti, le singole storie che convergono in quello stato di sospensione, o di imminenza della morte, nel peggiore dei casi. La piegatura sadomasochistica dei rapporti è l’altro tema che si intreccia con il primo, insieme al ribaltamento dei ruoli che pure è frequente nelle condizioni costrittive di cui parlavo (il medico diventa sempre malato, se la malattia è la vita). Ricordo volentieri quello che disse un critico del Farmaco: l’ospedale lo vediamo più dalle tracce e dai momenti di infaordinario (le lenzuola sgualcite, la pelle erosa dagli aghi, le piaghe da decubito) che da una descrizione mimetico-realistica. È il mio obiettivo nella scrittura, che non a caso ha un’intonazione spesso o saggistica e molto poco romanzesca nel senso corrivo (i rivolgimenti di trama sono l’ultima delle mie preoccupazioni). Dopo anni in cui lavoro sugli stessi temi, mi sono accorta che sebbene non valga per me l’aspetto risarcitorio della scrittura-terapia, c’è una spinta molto forte nel dolore, che si traduce di volta in volta in rabbia, fastidio, adesione creaturale o cinismo. Tutte tonalità che si mescolano nella scrittura, e che ne sostanziano il sovrasenso.

– Nel tuo ultimo romanzo, La parte di Malvasia, edito da La Nave di Teseo, si legge che “passiamo lo nostre giornate a inseguire un fantasma”. Qual è il fantasma che, tutti i giorni, insegue Gilda Policastro?
L’autenticità, la verità, le cose come stanno. Un’ossessione che può sembrare strana per chi dedica la propria vita alla scrittura, quindi alla menzogna, al travestimento della realtà. È un fantasma, infatti.
– Antonio Porta, poeta della neoavanguardia italiana degli anni Sessanta, scrisse che la poesia è “un’azione di antropologia linguistica”. Siccome la tua scrittura è attentissima al linguaggio, come vivi e interpreti questa definizione di Porta in relazione al tuo scrivere?
Porta, come i suoi sodali della neoavanguardia, credeva nel linguaggio come strumento di costruzione della realtà. Nel linguaggio si trova un’idea di mondo (come voleva invece Sanguineti), ed è per questo che, come dico sempre ai miei allievi nei corsi di scrittura, le poesie hanno una data accanto. Non una scadenza, ma una marca del tempo in cui sono state concepite, pensate (perché la poesia si pensa, non sgorga da nessuna parte), e credo davvero che il linguaggio possa e debba spostare il punto di vista corrente sulle cose. È in questo che la letteratura si differenzia dalle altre forme di comunicazione o di intrattenimento: il potere dello choc che non passa per gli effetti, per l’incanto o lo stordimento delle immagini o della musica, ma è tutto nella parola e nell’immaginario che evoca, convoca, espande.
– Assieme ad Andrea Cortellessa, sei anche una delle più apprezzate e temute critiche letterarie contemporanee ma, come mai, oggi, la critica letteraria (anche intesa come “stroncatura”) è così mal vissuta dagli autori, quasi che fosse un gesto di violenza gratuita?
Perché come si è detto da più parti, non esiste più una società letteraria, o si è spostata e frammentata sui social, che sono lo spazio dell’a-gerarchico e del simmetrico, in cui l’opinione del critico vale tanto quanto quella dell’anonimo che posta le sue impressioni di lettura a caldo. La differenza sta in questo: le impressioni del critico non sono (o non dovrebbero essere) idiosincratiche e anche quando sono riferibili a un “gusto”, si tratta sempre di un fatto sociale, discusso e condiviso con la comunità degli interpreti. Che sono tutti i lettori, certamente, anche quelli non professionali, a condizione che conoscano il codice e che sappiano argomentare in modo critico.
– Qual è il tuo più grande sogno?
Vivere di sola scrittura. Impossibile, per quello che scrivo.

– Qual è la tua più grande paura?
Rimango in ambito letterario: essermi sbagliata su tante cose (e persone), aver investito tutte le mie energie su un progetto intellettuale utopico e anacronistico, credendo davvero nella letteratura come spazio democratico di emancipazione dalle idées reçues, dalle gabbie del senso comune. Buon senso, molto spesso, ma non è quello che muove il mondo.
– Che cosa vorresti lasciare dopo la tua morte?
Lo dico col Perec di Specie di spazi: “lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. Ma non credo che m’importerà granché nel laggiuso per dirla con Manganelli, cosa se ne farà della mia memoria. Spero non venga tradita la cosa a cui più tengo: l’onestà nella scrittura. Onestà di sguardo, che non è, ovviamente, imparzialità.
FINE
Bibliografia
Romanzi
Il farmaco (Fandango, 2010)
Sotto (Fandango, 2013)
Cella (Marsilio, 2015)
La parte di Malvasia (La Nave di Teseo, 2021)

Poesia
Non come vita (Aragno, 2013)
Inattuali (Transeuropa, 2016)
Esercizi di vita pratica (Prufrock spa, 2017)
Saggi
Sanguineti (Palumbo, 2009)
Polemiche letterarie dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, 2012)
L’ultima poesia: scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo Novecento a oggi (Mimesis, 2021)
Sitografia
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