Firenze – Due ore di solitudine. Tanto dura la prigionia di Fabrizio Gifuni, solo un microfono un tavolo su un piano inclinato un grumo di fogli in mano immobile e vibrante sul palcoscenico della Pegola, per ricucire i 55 giorni di prigionia di Aldo Moro.
L’eco delle lettere di Moro e del Memoriale (rispuntato fuori “per caso” come ulteriore enigma dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda) restituisce il sapore acre di una pagina fra le più buie e terribili (certo la più disturbante) dell’Italia repubblicana.
Dopo le tracce di Pasolini, finite nel 1975 (tre anni prima di Moro) nella polvere dell’Idroscalo di Ostia, Fabrizio Gifuni riprende il filo di una narrazione, una antibiografia del Belpaese, che piomba dritta e assordante nel cuore della nostra storia recente. Tutto suona come un’inevitabile tragedia. Si percepisce la consapevolezza di un sacrificio, una condanna a morte studiata a tavolino (da chi? perchè? gli interrogativi si rincorrono ma non approdano a nulla) che nessuno (nemmeno il Papa che pure spenderà tutto il suo potere, morale e materiale) sembra poter evitare.
Men che meno i compagni di partito, la nomenclatura Dc schierata per la linea dura costi quel che costi, nessun cedimento, gli ex amici o sedicenti tali, fattisi muti, Andreotti Taviani Piccoli Cossiga Zaccagnini, che spalleggiati dalla stampa e dall’opinione pubblica gli voltano le spalle, gli danno del matto, un Moro uscito di senno perché quelle cose che scrive un Moro sano non le avrebbe nemmeno pensate.
C’è un dolore sordo e montante, una rabbia oscura, un mulinello di ipotesi cadute nel vuoto e presto abbandonate (solo i decennali per un po’ riaccendono le luci) in questa cavalcata solitaria che Gifuni, sostenuto dalla consulenza storica di Francesco Biscione e Miguel Gotor, assorbe su di sé, sul suo corpo, sulla sua coscienza di attore e cittadino, un sudario, un riverbero, un “meteorite” come lui stesso dice, un oggetto misterioso piovuto da un altro tempo e da un altro spazio che poi tanto lontani non sono.
Un maledetto imbroglio, ma di ben altro peso, per citare Gadda, altro nome caro a Gifuni. Moro, in quei fatidici 55 giorni, prima di ritrovarsi cadavere il 9 maggio 1978 nel baule di una Renault 4 rossa in via Caetani, a metà strada fra la Dc di piazza del Gesù e il Pci di via delle Botteghe oscure, parla, ricorda, annota, risponde, interroga, confessa, accusa, si congeda.
Con lucida chiarezza moltiplica le parole sulla carta, lettere scritte e recapitate e lettere censurate dai brigatisti, si rivolge ai familiari, agli amici, ai colleghi, ai rappresentanti delle istituzioni, redige brevi disposizioni testamentarie. E insieme nel chiuso delle sua “prigione”, compone un lungo testo, politico, storico, personale: il cosiddetto “Memoriale” con le risposte e le considerazioni alle domande poste dai rapitori.
E’ l’ultimo profilo di Moro, il sipario sta per calare, un fiume di parole inarrestabile che si cercò subito di arginare, silenziare, mistificare, irridere. Carte su cui, a distanza di quaranta anni, regna ancora un silenzio assordante. Che nel titolo dello spettacolo diventa “irridente”, come scrive Moro in una delle ultime lettere indirizzate al segretario Dc Benigno Zaccagnini: “Con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona e la mia famiglia”.
Sarà utile a questo punto ricordare quanto scrisse nell’occasione Leonardo Sciascia: “Lo Stato italiano è resuscitato. Lo Stato italiano è vivo, forte sicuro duro. Da più di un secolo convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli di impunite malversazioni e frodi. Ma ora di fronte a Moro prigioniero della Brigate Rosse, lo Stato italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità?”