Gentile: si riapre il dibattito sul suo ruolo nella cultura italiana

Ristampato da Le Lettere il libro del figlio Benedetto

Ci sono libri che conservano per anni attualità e importanza, perché si riferiscono a eventi storici di straordinaria rilevanza dal punto di vista di una verità controversa che solo in questi anni sta emergendo perché è stata troppo legata a fronti ideologici opposti.

Ma anche dal punto di vista della grande cultura italiana, dal momento che è ancora aperto il dibattito sul filosofo Giovanni Gentile, fondatore dell’Attualismo, e quello che ancora viene definito come “il giallo” del suo assassinio, ufficialmente ad opera dei Gruppi di Azione Patriottica, il 15 aprile 1944 davanti al cancello della Villa Montalto al Salviatino, a Firenze, dove risiedeva con la famiglia.

Fra i saggi che periodicamente tornano in libreria come conseguenza della scoperta di nuovi documenti che producono nuove interpretazione, ce n’è uno che rappresenta la posizione della famiglia e che dunque resta fondamentale per qualunque studioso voglia confrontarsi con quelle vicende. Pubblicato nel 1988 dalla casa editrice “Le Lettere”, la primavera scorsa è stato  ristampato nella stessa collana originale “La Nuova meridiana” il libro di Benedetto Gentile (1908-1998), quintogenito figlio del filosofo .

Il titolo “Ricordi e Affetti”, minimalista, coerente con il carattere dell’autore, diplomatico di carriera dal 1935 al 1949 e poi uno dei dirigenti della casa editrice Sansoni che il padre aveva acquisito nel 1932, non corrisponde a quella che si può definire una memorialistica di famiglia, altrettanto utile per ricostruire caratteri e personaggi.

Troppo importante la figura del padre, troppo ancora sanguinanti erano (e sono tuttora) le ferite della guerra civile, perché Benedetto, anche per mestiere, potesse lasciarsi andare a aneddoti e curiosità. Più volte l’autore afferma la sua intenzione di scrivere con oggettività e serenità di giudizio nonostante la testimonianza del figlio di un uomo che fu potente e poi vittima, pensatore e imprenditore, accademico e maestro.

Il racconto, piano e sereno, ma denso di emozione e partecipazione, è suddiviso in capitoli di varia lunghezza che corrispondono a diversi periodi dell’ultima parte della sua vita (dal 1983 al 1987) quando più forte era l’impulso a scrivere sia per l’onda di ricordi familiari che per le sollecitazioni offerte di libri e saggi sul padre e la famiglia dei quali offre recensione puntuale senza mai lasciarsi andare a giudizi dettati dal rancore.

La personalità del padre ne risulta scolpita per contrapposizione fra i giudizi degli accusatori e quanto emerge da una visione dall’interno dei momenti più controversi della vita del padre. In particolare l’amicizia con Benedetto Croce, il filosofo napoletana di cui l’autore porta il nome, trasformatasi in una insanabile frattura, le cui conseguenze sono durate a lungo per esempio quando gli studiosi avevano verificato la necessità di riunire in una sola opera il carteggio fra i due e invece furono fatti due studi diversi. Il rapporto Gentile-Croce, scrive, “deve essere indagato anzi tutto sotto il profilo psicologico. È sotto questo segno che vanno ricercate le origini del comportamento dell’uno e dell’altro, a parer mio specialmente di Croce. Qual è stata insomma la vera radice di un distacco che è giunto ad esprimersi in forme e toni tanto violenti? […] I temperamenti dei due uomini non potevano essere più dissimili, così come la loro estrazione e le condizioni in cui le loro vite, rispettivamente, si sono svolte».

Lo stesso modo di procedere per contrappunto riguarda il discorso che Gentile fece in Campidoglio nel giugno 1943 nel quale, prima del crollo del regime, aveva invocato l’unità nazionale al di sopra dei partiti e delle fazioni, sostenendo che i concetti di fascismo, Stato e nazione erano sinonimi. L’autore riporta una lettera alla figlia Teresina dopo l’incontro con Mussolini sul Garda: “Bisogna marciare come vuole la coscienza. Questo ho predicato tutta la vita. Non posso smentirmi ora che sto per finire”.

Al di là di questi e altri riferimenti che lasciamo agli storici che lo stanno affrontando ora con la maggiore serenità e distanza offerta dal tempo che passa, la lettura di “Ricordi e Affetti” si consiglia anche per la descrizione, spesso bonaria, ma sempre sincera e a volte impietosa, dei tanti personaggi che ha incontrato nel corso della sua carriera lavorativa e nell’evolversi dei rapporti familiari. Ne emerge uno spaccato della cultura italiana del primo Novecento grazie agli incontri che il ruolo del padre aveva nella cultura italiana: da Delio Cantimori a Ugo Spirito, da Gioacchino Volpe a Corrado Alvaro, da Riccardo Bacchelli a Giuseppe Tucci, agli amici del Forte dei Marmi come Camillo Pellizzi, Massimo Bontempelli, Leo Longanesi e Mino Maccari.

Fra i personaggi più approfonditi c’è Dino Grandi, un diplomatico grand cpmmis del regime che sapeva trasmettere ai suoi interlocutori non solo la politica e il governo  che rappresentava ma anche una certa indipendenza che gli permetteva di apparire più disponibile a uscire dall’ufficialità.

Un’ultima annotazione su Firenze, la città, alla quale lo lega un attaccamento fortissimo e  nella quale “si sono susseguiti i momenti più difficili della sua vita”: “Lì è morto mio padre e dopo mio padre anche mia mamma e due miei fratelli. A Firenze ho visto infine chiudersi malinconicamente e ingiustamente la casa editrice a cui avevo dedicato le mie forze. Un concorso infelicissimo di fatti insieme con la malignità o la colpevole indifferenza di uomini ne provocò la fine. Aveva ancora innumerevoli risorse e intatte possibilità. Tutto si consumò fra la generale indifferenza”.

Foto: Giovanni Gentile

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