Firenze – Una conversazione sul teatro, la creatività, la tragicità dell’esistenza. E’ uno spettacolo di alto valore artistico quello messo in scena alla Leopolda dalla compagnia del Teatro Nazionale Serbo diretta da Tomi Janezic con la drammaturga Katja Legin. Nell’ambito del Festival di Fabbrica Europa 2014, si è rappresentato un dramma, Il Gabbiano di Anton Cechov, che fa parte delle opere universali che ritornano costantemente sui palchi dei teatri di tutto il mondo.
Scritta nel 1895, Il Gabbiano annuncia le fratture e i tormenti dell’animo umano del Novecento, che si esprimono nella rotture delle forme artistiche quali erano state teorizzate nei decenni precedenti. Janezic la riconsegna allo spettatore del terzo millennio proponendogli una riflessione totale e totalizzante, come una pausa senza limiti di tempo – sette ore di spettacolo intervalli compresi – nel flusso monopolizzato dall’elettronica delle coscienze di oggi.
Per coinvolgerlo, il regista sloveno usa tutte le tecniche della comunicazione audio-visiva, partendo dalla replica vivente della foto nella quale è ritratto Cechov con gli attori del Teatro d’Arte di Mosca che la rappresentarono al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo, per concluderla con un video retrospettivo e introspettivo sul dramma morale, psicologico, esistenziale di Nina Michailovna Zarečnaja. Nel mezzo c’è tutto: c’è Shakespeare dell’Amleto nelle “nuovo forme” della pièce di Konstantin Gavrilovič Trepliov, il giovane aspirante drammaturgo infelicemente innamorato di Nina, c’è Peter Brook del Marat – Sade, ci sono le intuizioni teatrali di Pina Bausch.
C’è anche il teatro greco, nello smontare i quattro atti del Gabbiano
facendoli diventare quattro differenti opere, ciascuna delle quali conquista una sua autonomia proponendo un tema di riflessione che mette in rilievo un aspetto diverso della dinamica dei caratteri. Ciascuno rappresenta un pezzo dei conflitti dell’uomo contemporaneo. Il Gabbiano diventa un’Orestea, tragedia della contemporaneità, che in nulla ha tradito il testo di Cechov, ma che anzi ne ha esaltato il messaggio universale. “Lo spettacolo – è scritto negli appunti di regia di Janezic – tenta di porre interrogativi sul recitare, sul teatro, sul processo artistico e sulla vita, sui processi creativi, sulla creatività stessa e le arti in generale”.
Così i 14 attori che insieme a Janezic accolgono il pubblico seduti in un quadrato come se dovessero dare vita a una sessione di prove sono nello stesso tempo le “maschere” dei personaggi del dramma ottocentesco e coscienti protagonisti non solo di un testo di alta letteratura, ma anche di uno psicodramma che li rende persone concrete mettendo allo scoperto le loro debolezze, le loro aspirazioni più nascoste, i tentativi per lo più falliti di raggiungere la creatività. Accettandone anche le conseguenze in un “sabba” scatenato e irridente quale è quello che conclude il secondo atto.
Janezic è presente sulla scena con un ruolo didascalico, come un narratore shakespeariano, il tecnico di scena che cura la macchina teatrale (la musica, il suono), allentando la tensione di ciò che si svolge sulla scena vera e propria con poche battute che ricordano agli spettatori che quei drammi ai quali assistono sono i loro stessi drammi, ma – tranquilli – si tratta pur sempre di una finzione teatrale.
Nella foto Wikipedia: Čechov legge Il gabbiano agli attori del Teatro d’Arte di Mosca