Fra social, online e self publishing la poesia è più viva che mai

Qual è lo stato dell’arte della scrittura in versi in Italia?

Lo stato dell’arte della poesia in Italia? A che punto (o a quale stadio) siamo? È viva e vegeta o magari è malaticcia, per non dire moribonda? C’è posto, oggi, per un testo impaginato a bandiera nell’era della turbo-audio-video-immagine e di Tik Tok? Quale spazio per l’esercizio della lingua scritta ai tempi di Internet e dei social network, dell’instant messagging e dell’incipiente metaverso? E dove sta il vaglio critico (per non dire dove va il mercato) al tempo del self publishing? Domande più o meno epocali per risposte non semplici.

Come mappa per capirci qualcosina, o bussola per muoversi tra i generi, gli stili, le autorità in campo e gli emergenti dell’ultimo decennio, compresa un’infarinatura generale sulle tendenze in corso, si potrebbe partire dallo sfogliare “La letteratura italiana contemporanea” di Giulio Ferroni (Mondadori 2015), “La poesia italiana degli anni Duemila” di Paolo Giovannetti (Carocci 2017), “Poesia italiana dal Novecento a oggi” di Alberto Bertoni (Marietti 2019), “Poeti italiani nati negli anni ‘80 e ‘90” vol. I, II e III (2019, 2020, 2022) della giovane casa editrice Interno Poesia e, visto che il titolo è accattivante e persino politicamente corretto, “Oracolo manuale per poete e poeti” di Giulio Mozzi (Sonzogno 2020). Proviamo ora, nel nostro piccolo e in maniera personale, non esaustiva, a dipingere un breve quadro, o meglio, una cornice di riferimento procedendo per spunti e accensioni, in ordine “scarso”.

Io non credo nella poesia. Credo soltanto in quelle poesie che mi fanno credere in loro. Se convince il lettore, la poesia non ha bisogno di essere difesa. Se non lo convince, perché difenderla? Credo che oggi il più insidioso e temibile nemico dell’apoesia sia la poesia stessa, o meglio la sua idea, il suo mito, la sua nobiltà tradizionale” (Alfonso Berardinelli, “Poesia non poesia”, Einaudi 2008)

Prima osservazione: la poesia è più che mai viva. C’è e si vede, o al limite la si ascolta. Si continua a scrivere, in ogni occasione e in qualsivoglia direzione stilistica, contravvenendo alla sentenza di Theodor W. Adorno secondo cui, dopo Auschwitz, è possibile soltanto scrivere poesie barbariche. Si continua a pubblicare, e parecchio, con o senza un editore, aulici e barbari, “poeti laureati” (cfr. Eugenio Montale, “I limoni”) e poeti che frequentano l’università della strada. Che sia la plaquette di un giovane esordiente o di un meno giovane praticante, o magari la raccolta più corposa di un grande vecchio (tra il solito stronzo e il venerato maestro, per dirla con le celebri categorie di Alberto Arbasino), antologica o in opera omnia, la scrittura in versi continua ad essere proposta all’esiguo popolo dei cultori (anche se in libreria arrivano solo i poeti affermati e recensiti) e soprattutto a percorrere le sterminate praterie online, dove tra l’altro ogni giorno nascono spazi certi o più effimeri dedicati ai grandi autori del passato, con la riproposizione in pagine monografiche o tematiche della loro migliore o più accessibile produzione.

Morale: l’interesse c’è, ma le vendite languono. Una fruizione gratuita, occasionale e talvolta involontaria, quella online, concernente perlopiù singoli componimenti che rimbalzano da un account all’altro, mentre una raccolta cartacea la devi comprare, e per farlo devi essere motivato. Secondo una statistica, nel 2017 sono stati pubblicati circa 3.800 libri di poesia, che però hanno costituito solo lo 0,48% dei libri venduti in quell’anno. Insomma, il fanalino di coda del mercato.

La scrittura in versi si trova ovunque, è facile da veicolare e risulta efficace in termini di feedback emozionale. Alla poesia sono riservati un fottìo di premi e concorsi (dalle accademie blasonate alle pro-loco di paese), festival e rassegne mondane annuali di più giorni molto ben organizzate e articolate (ad esempio nel Modenese e a Pordenone), rubriche fisse su supplementi settimanali e riviste mensili, pubblicazioni di nicchia per appassionati o addetti ai lavori (che arrivano in molte biblioteche pubbliche e a volte, quelle più pop, anche in edicola)… e poi T-shirt, slogan per la pubblicità, murales in sottopassi e cavalcavia e street art di varia estrazione e astrazione.

La poesia ha una tradizione millenaria; inizialmente orale, esiste dagli albori della civiltà come forma spontanea, immediata; poi sempre più calibrata e misurata, anche metricamente (non a caso viene spesso accompagnata dalla musica); infine scritta e diffusa ovunque grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili. È un istinto espressivo identitario, utile a fare i conti con sé stessi (tendenza “rime nel cassetto”) o a comunicare agli altri (tendenza “vorrei lasciare un segno”), e viene intesa sia come autoterapia sia come cura civile attraverso la parola, e le parole, come direbbe Nanni Moretti in “Palombella rossa”, sono importanti, tanto per lenire i mali dell’anima quanto per prendere le distanze da quelli – più prosaici, meno lirici – della società, fino a denunciarne sovente le derive e i cortocircuiti. Ricordo che “La poesia salva la vita” è il titolo di una ricognizione di Donatella Bisutti uscita nel 1992 per Mondadori e in nuova edizione nel 2016 con Feltrinelli.

Seconda osservazione: la poesia sta riscoprendo la “fase orale”, financo muscolare quando serve allo scopo, e ciò è dovuto al suo rinnovamento o trasfigurazione o addirittura conversione (già: il mezzo si fa fine) a favore della transmedialità, la crossmedialità e la multimedialità. Sono cambiati i modi e le dinamiche della proposta e della fruizione; più correttamente: ai tradizionali supporti cartacei, che comunque resistono e fanno fico, si sono via via affiancati (e sempre più prepotentemente negli ultimi 15 anni, con l’arrivo degli smartphone) i più moderni strumenti della rivoluzione digitale, per cui, puristi e lettori strong a parte (che spesso sono anche big spender, appassionati annusatori di colle editoriali e amanti del fruscio di questa o di quell’altra carta), le ultime generazioni, insomma quelle dei nativi digitali, frequentano più facilmente la poesia online, a mezzo web, in modalità wi-fi, comoda e a km 0. È la cosiddetta Poesia 2.0, dove penna e foglio sono stati sostituiti da banda larga e touch screen.

La poesia nell’era della sua riproducibilità tecnologica, potremmo dire parafrasando il Benjamin de “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1935). Tutto è sharing e streaming, e il discorso dell’autostrada telematica vale anche per la poesia. Su Facebook e Instagram, per dire, ci sono ottime pagine di produttori e consumatori di pensieri e parole: lì si mettono in mostra, s’incontrano, si scambiano like e cuoricini. Senza filtri, senza spendere un euro e spesso – vale per i dilettanti più entusiasti – senza nemmeno una rilettura (e questo non è un bene). Sulle bacheche no stop della quotidianità navigante, mostri sacri di un vicino passato (a volte di un trapassato remoto che ha dettato il canone novecentesco) si alternano alle prove, anche di buona fattura, delle nuove promesse.

E proprio quei profili digitali, quelli più frequentati e dunque con più seguaci, sono territorio di caccia privilegiato per consulenti editoriali assetati di novità per le loro collane e per il mercato: lo scouting si fa lì, cercando nuovi nomi da lanciare e traghettare in grande stile al cartaceo. Libri il più delle volte ibridi, talvolta di innovativo design grafico, dove insieme ai testi in versi trovano collocazione parti in prosa, disegni a mano in bianco e nero o illustrazioni a colori. Tra i casi più noti c’è quello della giovane poetessa indiana Rupi Kaur, con il suo “Milk & Honey” uscito a fine 2014 e subito impostosi come bestseller internazionale: una formula che, con in filigrana l’impegno sul fronte femminile, con gli anni ha ispirato un vasto esercito di Instapoets.

È la democrazia orizzontale dell’uno vale uno, e in fondo è giusto così. Condivisioni, tag, app, geolocalizzazioni, ipertestualità… Ma non di solo testo vive l’homo poeticus, appunto, per cui all’occhio si affianca sempre di più l’orecchio, che reclama la sua parte. Parliamo della poesia audiovisiva, cioè recitata e magari sceneggiata a uso di stories o podcast.

Dall’online all’onlife (cfr. Luciano Floridi) all’on stage, dal letto al detto e dal detto al messo in scena: la poesia è anche e sempre più atto fisico, in presa diretta con il pubblico in presenza, insomma performance. Letture teatrali, spettacoli sceneggiati con o senza musica e videoproiezioni o intermezzi e riempitivi vari: il poeta, da menestrello per pochi intimi, si fa popstar da tutto esaurito, in una virtuosa triangolazione costituita da volume in libreria, promozione e rilancio social (su profili con decine di migliaia di follower) con tanto di tournée nei club e nelle piazze della penisola. Tra i più bravi e seguiti, in questa evoluzione naturale del poeta-artista, ora più ironico ora più sentimentale, possiamo citare Guido Catalano e Gio Evan, scrittori ad ampio spettro pubblicati con ottimo riscontro dalle più importanti case editrici.

Un’evoluzione del classico reading, ma anche dello slam poetry o dello spoken word (e in senso più confidenziale), con al centro l’autore e la sua voce, il contesto live e il suo allestimento emozionale, da esperienza immersiva (e ciò vale, mai come oggi, anche per i grandi concerti pop e rock), riesumando il senso del caro vecchio happening ma senza indulgere a nostalgie circa l’epopea della beat generation – oggi, per ovvie ragioni, sostituita dalla bit generation.

Vexata quaestio: i testi più riusciti delle canzoni sono poesia? I cantautori più famosi sono apparsi e appaiono spesso in antologie e sussidiari scolastici, ed effettivamente molte loro strofe sembrano (sono?) in tutto e per tutto delle splendide poesie. Stesso discorso, oggi, vale per i testi del genere trap (anni fa si diceva rap), almeno quello più “letterario”: difficile sostenere che alcuni di questi componimenti, molto spesso in rima, non siano una forma nemmeno poi tanto dissimulata di poesia.

Pare che siano più di un milione gli estensori di versi – cioè coloro che vanno a capo prima che la riga tipografica a loro disposizione sia finita – che espongono attraverso questa forma spezzata di scrittura i loro sentimenti (…) nonostante che appena duemila di loro siano disposti ad acquistare (e si presuppone o si spera a leggere) un libro di poesia contemporanea.” (Bertoni 2019)

Terza osservazione: si scrive tanta poesia, ma si legge pochissima poesia (tutti poeti = nessun grande poeta?). E qui la cosa da antropologica si fa sociologica. In Italia, si sa, si legge meno che in altri paesi d’Europa, e ciò – in proporzione – vale anche per la narrativa e la saggistica. Analfabetismo di ritorno a parte, e fatte salve le lodevoli eccezioni, esistono studi e statistiche poco incoraggianti sulla qualità dell’istruzione e sul livello di preparazione sintattico-grammatico-alfabetica delle nuove generazioni, nonché sulla nota difficoltà nella comprensione di un testo anche di struttura non poi così complessa.

Tanti scrivono per sé, pochi leggono gli altri. Manca cioè un confronto costruttivo, evolutivo, un vaglio critico. Va bene l’istinto, ma un po’ di tecnica e di regole, oltre all’abusata ispirazione, non guasterebbe, specie per chi ambisce al mestiere (almeno così com’è stato storicamente inquadrato: ovviamente nulla toglie che si possa e anzi si debba scrivere come pare e piace, sperimentando persino l’inconcepibile, dal momento che ci si muove, cut-up o non-sense o imprecisioni inclusi, appunto, nell’alveo della “licenza poetica” e del gusto che quasi mai disputandum est). “Una regola d’ingaggio necessaria e sufficiente” – scrive Bertoni – è quella secondo cui “un testo poetico riuscito equivale a una partitura musicale”. Insomma, che si tratti di Mozart o di Stockhausen poco importa, a ciascuno il suo spartito.

Mi sovviene un breve guizzo poetico di Giorgio Caproni, laddove riferendosi al caro amico e poeta Camillo Sbarbaro, scrive: “Dubbio a posteriori: i veri grandi poeti sono i ‘poeti minori’?”. Non che sia da prendere alla lettera, ma il memento suona bene e può servire come monito nei confronti di chiunque pretenda di assegnare comode patenti o di stilare sommarie classifiche, decretando d’emblèe sommersi (l’oblio) e salvati (l’alloro). Scrive Ferroni (2015): “Tema periodicamente affrontato ai nostri giorni dalla stampa periodica è quello della diffidenza degli scrittori verso i critici: ostilità per i critici ‘militanti’ che non si occupano abbastanza dei singoli (che li vorrebbero sempre schierati e solidali con loro) e vero e proprio disprezzo verso gli storici che sembrano tagliare le cose cono l’accetta, giudicano e mandano i viventi in purgatorio con troppa sufficienza e disinvoltura (…) una critica ormai ridotta a servizio editoriale”. Come dargli torto…

Parentesi: proponiamo un originale, divertente e illuminante “pentalogo” bukowskiano (la sua prassi visionaria, la sua pragmatica poetica) selezionando e rimontando alcuni passaggi di alcune interviste da lui – autore di culto – concesse tra il 1963 e il 1970, contenute nel libro “Il sole bacia i belli” (Feltrinelli 2014):
1) Quando un poeta prova a fare il duro, avrà il suo bel sederino roseo sculacciato, perché se fai domande prima o poi arrivano risposte, ma più in generale si ottiene una sola cosa: una lapide, se si è fortunati, oppure erba verde…
2) Per me il poeta è sempre un uomo solo nella sua stanza che crea arte o fallisce, tutto il resto sono cazzate…
3) Non me la sento di suggerire l’ippodromo come incubatore e ispiratore di poesie, ma con me funziona: come la birra o scoparsi una donna, come i sigari o Mahler con del buon vino e le luci spente, seduto nudo mentre guardo le macchine che passano…
4) Le poesie sono la minor perdita di tempo: c’è chi colleziona francobolli e chi accoppa le nonne, perché siamo tutti quanti in attesa, facciamo piccole cose aspettando di morire…
5) Non penso mai: sono un poeta, registro; arrivo alla macchina da scrivere, mi siedo, giro a vuoto con la testa vuota e le parole arrivano da sole; ma non sono mai abbastanza solo, e se non posso allontanarmi dalla massa non saprò mai chi sono loro e chi sono io (…) Qui è dove i vari Dylan e i Ginsberg e i Beatles sbagliano: sprecano così tanto tempo a parlare di vita che non hanno più tempo per vivere…

Stampare un libro cartaceo, anche considerando le oscillazioni tendenti al rialzo del costo della carta, costa relativamente poco, specialmente presso le grandi tipografie rintracciabili online, in grado di praticare prezzi accessibili a un vasto pubblico e costantemente a caccia di clienti; oltre al fatto che con la modalità di stampa in digitale (non off-set né in roto), di ultima generazione, è possibile ordinare anche solo poche decine di copie e ristampare in breve tempo al bisogno (apportando nel frattempo correzioni, variazioni, integrazioni) e con un buon risultato qualitativo. Sono i cosiddetti autori in proprio o APS (“a proprie spese”, come li ha chiamati Umberto Eco), che per vari motivi non hanno voglia di sottoporre i loro testi a una casa editrice, elemosinando attenzione e aspettando tempi generalmente lunghi per avere una risposta, spesso seriale, con notevoli ripercussioni sull’entusiasmo e l’autostima (sempre che arrivi, una risposta: esiste una discreta bibliografia tragicomica al riguardo, a partire dal celebre “Lettere a nessuno” di Antonio Moresco, 1997).

C’è chi ha fretta, o magari non ha a tutti i costi l’ambizione di vedere affiancato il proprio nome a un marchio editoriale, per efficiente o rinomato che sia; tuttavia non è escluso che con le conoscenze giuste le cose prendano una piega più favorevole al candidato, e in modo più celere. Pubblicando in solitaria, si può gestire come si vuole l’intero quantitativo previsto e, se si ha un buon giro di amici parenti colleghi allargando via via l’ingaggio, se si sanno utilizzare abbastanza bene le logiche relazionali e le regole algoritmiche delle piattaforme social e, valore aggiunto, se si conosce l’abc della comunicazione e del marketing, si è già a metà dell’opera. Se poi si possiede anche la pazienza per imparare a caricare il proprio lavoro sugli store online, ad esempio Amazon, che lo “distribuirà” in ogni dove e lo stamperà on demand velocemente in relazione a ogni singolo acquisto, beh, il gioco è fatto. Una constatazione che è una consolazione: storicamente – non solo per la poesia, ma anche per la saggistica, ad esempio filosofica – esistono casi di grossi nomi successivamente arrivati al successo planetario che, almeno all’inizio o in fasi critiche della loro carriera di autori, hanno optato per l’autoproduzione.

Come si sa, negli ultimi anni hanno preso piede le piattaforme di self publishing, ossia veri e propri service editoriali che accompagnano l’autore dal testo al prodotto confezionato, fornendo anche un codice ISBN (la carta d’identità di ogni libro) e quindi operando sostanzialmente da “editori” in grado di dare un contesto più comunitario al prodotto e fornire un minimo di visibilità attraverso i propri canali, e con preventivi di costo modulari. Infine, esiste l’editoria in tutto o in parte a pagamento, non sempre così chiara nel proporsi al pubblico, che si prende in carico e in catalogo il libro dietro la corresponsione di un contributo – sotto varie forme e di varia entità, tipo la promessa dell’acquisto diretto di un certo numero di copie – da parte dell’autore, il quale accetta di aderire al servizio sperando che la smania per il sogno di gloria che sta per realizzarsi non lo porti a sborsare cifre sovradimensionate. Ovvio, ogni caso fa storia a sé: basta fare due calcoli, operativi e strategici, non solo economici, partendo sempre dagli obiettivi che ci si prefigge.

Si consideri, poi, che anche presso un medio editore che ha in scuderia un nome conosciuto al mercato, nella maggior parte dei casi le prime tirature raramente vanno oltre le mille copie in off-set; se poi l’editore è piccolo e il poeta emergente o poco conosciuto, si sta prudenzialmente entro le 300 copie con stampa digitale. Anche qui, con tutti i distinguo e le eccezioni del caso.

A questo punto, sarebbe utile non tanto definire ma almeno delimitare il concetto di “poesia”, o almeno dire cosa si intende quando se ne parla. Il termine è molto esteso, si presta a diverse sfumature e riferimenti nel tempo e nelle culture: lo si dovrebbe circoscrivere, perché le lingue e i linguaggi, i generi e gli stili, le metriche e le scuole, i fruitori e i contesti sono tanti. I lirici, gli ermetici, le neoavanguardie, i rimatori, i versoliberisti, i neorealisti, i surreali, gli apocalittici, la poesia civile, quella ombelicale, gli esteti, i performer, i transformer, i cervellotici, gli epici, gli eretici, gli erotici, i bucolici, gli orfici, i mediatici, i mortiferi, i maledetti, i dialettali, gli urlatori, ovviamente in forma chiusa (quartine, sestine, ottave etc) o aperta, lineare o sghemba, con la minuscola dopo il punto o con l’eccesso di lineette alla Emily Dickinson, prolissa e a flusso continuo con tanti incisi oppure scarna (scarnificata) come quelle dell’ultimo Caproni, più prosastica o più onomatopeica.

Una definizione scherzosamente provocatoria (ma vogliamo pensare che sia un omaggio sui generis) è quella data dallo scrittore Massimilano Parente nel suo libro “Scemocrazia” (Bompiani 2018) con la metapoesia-parodia “Lo scemo poeta”: È semplicemente un / romantico che / scrive delle scemenze andando / a capo / a cazzo / di cane.

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