Pistoia – Dal marzo 2020 facciamo i conti con un mondo la cui complessità e contraddittorietà rischia di sopraffarci. La quieta sonnolenza del benessere ha lasciato spazio, almeno per noi occidentali (sarebbe forse meglio dire occidenti), a paure e incertezze che dilagano sempre più frequentemente e che finiscono spesso per radicalizzarsi in abissi irrazionali di paura.
Mai come adesso, dunque, è utile riscoprire il pensiero e l’opera di Seneca.
Un po’ come nel caso di Gabriele D’Annunzio o di Yukio Mishima, la biografia di questo grande filosofo stoico di età giulio-claudia, tutor di Nerone e suo speechwriter, è significativa tanto quanto la sua vasta produzione letteraria e filosofica, e ne costituisce certamente l’appropriata chiave di lettura per una piena comprensione.
Seneca soffriva d’asma e la sua salute era cagionevole: proprio per questo motivo pare abbia lungamente soggiornato in Egitto, in giovane età: il clima caldo e asciutto di quelle regioni sembrava propizio a farlo respirare meglio.
E del resto la sua lunga esistenza, arrestatasi tragicamente per esplicita volontà del princeps con un plateale suicidio in età ormai senile, avviene proprio per soffocamento: ce lo racconta magistralmente Tacito nel quindicesimo libro del suo capolavoro, gli Annales.
Dunque la pratica del respiro appare per Seneca un lento e costante esercizio di avvicinamento alla morte, un preparsi quotidiano al distacco dalla vita appreso tramite la continua riflessione sull’atto che, nel suo ritmico alternarsi di espirazione e inspirazione, la consente.
Per chi guarda con curiosità e interesse alle pratiche meditative di matrice orientale, dalla mindful allo yoga, quest’indagine sul focus breathing di così antica datazione non può che apparire di sconcertante modernità. E l’uso costante dei dispositivi di protezione individuale, in questa lunga pandemia, ci ha del resto insegnato quanto possa essere liberatorio (e prezioso) respirare a pieni polmoni.
La parabola esistenziale di Seneca, provinciale di rango equestre nato in una famiglia benestante di Cordova e ben presto trasferitosi nell’Urbe per ricevere i migliori insegnamenti da maestri alla moda, appare per certi aspetti simile a quella di tanti altri rampolli della buona società del tempo, destinati a una brillante carriera forense e magari a un apprezzabile cursus honorum.
Eppure il suo straordinario talento, precoce nel palesarsi ai più, e l’inarrestabile determinazione al successo ne segnano fin da subito i giorni, costituendo la cifra naturale, lo stigma di una vita inimitabile, destinata agli eccessi della notorietà, del lusso e della ricchezza, ma anche agli abissi del compromesso e della paura, fino alla fatale caduta sotto la scure della hybris neroniana.
Arena sine calce è la celebre definizione data da Caligola dello stile sentenzioso e inimitabile di Seneca, analizzato da Alfonso Traina in un saggio ormai classico, Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca (Pàtron, 1974): pare che il princeps ne invidiasse oltremodo l’abilità retorica e che a salvarlo in extremis dalla condanna a morte sia stata solo l’intercessione di una favorita dell’imperatore, che gli avrebbe appunto fatto notare come la salute cagionevole del filosofo, votato senz’ombra di dubbio a morte prematura, non meritasse invero alcun accanimento.
Sopravvissuto alla crudeltà di Caligola, Seneca non sfugge tuttavia agli intrighi di palazzo all’arrivo del claudicante Claudio: coinvolto in un presunto scandalo sessuale con Giulia Livilla, figlia di Germanico e sorella del defunto princeps, trascorrerà in Corsica una lunga relegatio prima di rientrare a Roma grazie all’intercessione della scaltra Agrippina, che lo sceglierà come istitutore del figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone.
Supplichevole ben oltre la piaggeria nel chiedere la grazia del ritorno a Claudio tramite la consolatio dedicata al potente liberto di quest’ultimo, Polibio, e teatrale nell’esasperare i tratti dell’esilio sul modello dell’insigne e ben più sfortunato Ovidio, Seneca torna infine a Roma nel 48 a.C., come vero e proprio influencer di corte.
La contraddittorietà e l’ambivalenza appaiono fin da subito la sua cifra distintiva.
Non esita infatti a vendicarsi di Claudio post mortem con un impietoso e divertente pamphlet satirico che ne mette alla berlina i difetti fisici ben oltre il politically correct e il body shaming: l’Apokolokyntosis Divi Claudi.
E nella ridda forsennata che caratterizza l’avvicendarsi dei Cesari nella Roma del I secolo d.C., ben poco importa se sull’assunzione al cielo di Claudio – ossia nella sua zucchificazione, come recita più o meno la traduzione della satira menippea di cui sopra – gravi il sospetto di avvelenamento da parte di Agrippina, di cui forse lo stesso Seneca era al corrente. Non si tratta in fondo che di un blando accanimento terapeutico perpetrato ai danni di un imperatore ormai fuori moda, che aveva tardato un po’ troppo a togliere il disturbo (la pratica era del resto assai diffusa, come ben testimoniano le magistrali pagine di Tacito nonché quelle del più pettegolo Svetonio).
Nel 54 d.C. dunque Seneca, insieme al prefetto del pretorio Afranio Burro e alla stessa Agrippina, è una delle figure più influenti dell’Impero.
Nel suo corpo fragile, modellato dal digiuno e dalla frugalità, e nel suo pensiero lucido e possente si condensa l’utopia platonica dei filosofi al potere: come Aristotele con Alessandro Magno, Seneca plasma l’educazione di Nerone a partire dal 48 d.C. e ne guida l’imperium negli anni del cosiddetto quinquennium felix, fino al 58 a.C.
Per chi volesse cimentarsi con l’autore, segnaliamo Seneca: una vita, recente biografia di Emily Wilson, uscita per Penguin nel 2015 e pubblicata in Italia da Mondadori (2016) nella traduzione di Carla Lazzari. L’opera, di scorrevole lettura e diretta a un pubblico colto ma non specialistico, cerca di evidenziare la modernità del personaggio e di svecchiarne il profilo, studiato magari con svogliatezza sui libri di scuola. Come un vero e proprio Giano bifronte, Seneca appare da una parte maestro di pensiero e straordinario affabulatore, dall’altro arrivista colluso con il potere e dunque spesso ambiguo e sfuggente, lontano in ogni caso dall’ideale di perfezione socratica per sua stessa ammissione. Ricordiamo, del resto, come egli si definirà sempre non sapiens, bensì progrediente nel cammino di acquisizione della virtù.
Della sua fragilità così prepotentemente umana, delle sue oscillazioni interiori tra l’aspirazione all’otium e la seduzione dell’imperium è testimonianza la copiosa ed eterogenea produzione letteraria, che affianca a un’ampia gamma di Dialogi e alle celeberrime Epistulae morales ad Lucilium, nove cothurnatae in cui il furor dei personaggi sembra fare da contraltare alla sapienza stoica.
Nei foschi scenari tragici delineati nelle rappresentazioni teatrali, dall’Edipo all’Agamennone fino alla celebre Medea, Seneca pare mettere in scena il dramma del potere e la conseguente corruzione dell’anima che esso inevitabilmente porta con sé.
Di contro, nelle opere filosofiche, tutt’oggi ampiamente utilizzate per il coaching spirituale in virtù della loro attualità, assumono importanza preponderante gli insegnamenti sul valore del tempo e la ricerca della felicità. Segnaliamo a questo proposito un grazioso libello di Ilaria Rodella, Più saggi con Lucio Anneo Seneca (Chiarelettere 2014) che pare andare proprio in questa direzione.
La vita di Seneca, come del resto quella di tutti, non è stata che un lungo cammino di avvicinamento alla morte, ma a caratterizzarne l’approccio è stata la costante e lucida consapevolezza del suo appressamento.
I giorni fragili del grande vecchio di Cordova, minato nel respiro fin dalla più tenera età, non sono stati che un continuo memento mori, enfatizzatosi negli anni finali della sua travagliata esistenza in un lungo cammino di preparazione alla dipartita, quando ormai la follia di Nerone aveva tolto ogni speranza alla possibilità di sopravviverne indenne alla sua efferata crudeltà.
La morte di Seneca, teatrale e spettacolarizzata, preparata fin nei minimi dettagli, condivisa con amici e discepoli e poi portata a termine nella solitudine sacrificale del martire, appare spia di quanta differenza ci sia tra immaginare il proprio exitus e portarlo effettivamente a termine: svenato, avvelenato di cicuta e infine soffocato in un bagno di vapore caldissimo, Seneca lascia la vita tra stenti e tentativi, non solo come un Socrate imperfetto, ma addirittura come un comune mortale.
Ed è proprio questa imperfezione, in fin dei conti, a rendere le sue parole – altrimenti così alte e inafferrabili – del tutto credibili e quasi alla portata della nostra sensibilità tormentata.