Fine vita/1: “La norma è già nel nostro ordinamento”

Buffa (Possibile): “Stabilita dalla sentenza della Corte Costituzionale”

Fine vita, la norma esiste nel nostro ordinamento giuridico. Lo dice il coordinatore regionale di Possibile, Carlo Francesco Buffa, che, con il suo gruppo politico, ha sostenuto, con l’Associazione Luca Coscioni, sia la raccolta firme per il disegno di legge popolare sul fine vita lanciata dall’associazione, sia il disegno di legge approvato dal consiglio regionale della Toscana. Legge che segue (seppure dopo svariati anni) .la sentenza della Suprema Corte in tema, la 242/2019. La sentenza, dunque, spiega Carlo Buffa, stabilendo che non è punibile chi agevola il suicidio di un paziente che sia pienamente capace di intendere e volere, affetto da una patologia irreversibile fonte di sofferenze intollerabili, e tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, ha in realtà stabilito quali sono i parametri necessari per chiedere l’accesso al suicidio medicalmente assistito. In questo, a fronte di un clamoroso vuoto legislativo a porre rimedio al quale la politica nicchia, la Regione Toscana ha approvato, prima in Italia, un regolamento che disciplina, a partire dalle 4 condizioni necessario stabilite dalla Corte, i passi per chiedere e accedere al percorso che porterà appunto a finire volontariamente la propria esistenza.

Un’interpretazione, quella di semplice attuazione del principio contenuto nella sentenza della CC 242/2019, che ha trovato molte critiche da parte sia del mondo della politica che giuridico. Voi cosa rispondete?

“La norma esiste in questo momento nel nostro ordinamento nella forma in cui è stata interpretata dalla Corte Costituzionale, ovvero in vigenza di quei 4 requisiti che la sentenza DjFabo-Cappato stabilisce. Però poi bisogna dare attuazione al dettato della sentenza. Perciò, nel momento in cui un essere umano voglia rivolgersi alla propria unità sanitaria locale o azienda sanitaria locale o come si chiama nelle varie regioni l’articolazione del servizio sanitario, deve ottenere intanto una valutazione della sua situazione, ovvero della presenza di sofferenze fisiche e psicologiche ritenute insopportabili, della sua permanenza in vita grazie a trattamenti di sostegno vitale, della presenza di una patologia irreversibile, di essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Tali condizioni e le modalità di esecuzione, come si legge nel testo della sentenza, devono essere verificate da una struttura pubblica del SSN, previo parere del comitato etico territorialmente competente. In buona sostanza la proposta di legge popolare e poi la legge approvata in Toscana, non fa altro che disciplinare questo percorso. Si fa in modo soprattutto che qualche certezza venga data. Ad esempio, il comitato competente ad esaminare la situazione del richiedente, deve essere già formato al momento in cui il cittadino chiede l’accesso al fine vita; altrimenti si verificano situazioni paradossali, ad esempio il veder bloccato il procedimento in quanto deve essere nominato il comitato, oppure nominare il comitato via via ad hoc rispetto ai singoli casi, il che significa un enorme dispendio di tempo nell’attesa di rinominare agni volta il comitato stesso”.

Ma se si tratta di una semplice attuazione della sentenza costituzionale, che senso può avere il ricorso promesso dalle varie forze politiche di destra rispetto alla legge toscana?

“Lo Statuto regionale prevede che se almeno tre capogruppo di gruppi politici presenti in consiglio, ritengono di voler far verificare la conformità allo Statuto di un atto regionale possano chiedere di interpellare il Comitato quinquennale di garanzia statutaria. Nella composizione attuale, durante i suoi 4 anni di vita questo Comitato non è mai stato convocato. Francamente, l’impressione è quella di una manovra strumentale per arrivare quantomeno ad impedire la promulgazione. Il Comitato è tecnico, dovrebbe essere una comparazione amministrativa. Dal punto di vita regionale, non si tratta esattamente di un ricorso”.

I toni si sono accesi particolarmente sul tema. Non c’è secondo lei una certa manipolazione politico-mediatica che induce a un irrigidimento, qualche volta di facciata, ad usum populi, delle posizioni politiche su un tema che, per propria natura, rimane strettamente trasversale e soggettivo?

“C’è un senso preciso in questa manipolazione: l’opinione pubblica viene indotta a credere che la scelta della Regione sia una scelta eccentrica rispetto al resto d’Italia e che scavalchi la normativa nazionale. Non è così. E’ proprio falso”.

A che punto si è con l’efficacia della legge?

“Intanto, ci sono i giorni di verifica, e poi rimane sempre la possibilità del governo, entro i termini stabiliti dalla legge, di impugnarla, dopo la sua promulgazione, davanti alla Corte Costituzionale. Per quanto riguarda i tempi, il governo nazionale ha ora 60 giorni di tempo per valutare se impugnare la legge. La ragione dell’atto sarebbe la contestazione da parte del governo che la Regione abbia ecceduto le proprie competenze, sostenendo che una materia così delicata dovrebbe essere regolata da una legge nazionale uniforme. Ma il nocciolo della questione sta nel fatto che anche questa possibilità da parte del governo è stata da qualcuno interpretata come legata al merito della scelta, una scelta che è già stata fatta in tutt’altro contesto, dalla Suprema Corte. Qualsiasi governo in carica non può permettersi di dire “questa norma non mi piace quindi la porto davanti alla Corte Costituzionale”. Può legittimamente fare eccezioni, ad esempio, sui limiti che la Regione non avrebbe rispettato nella stesura della legge, oppure per violazione della norma costituzionale che stabilisce che la Regione non possa legiferare su diritti alla persona. Ci si comporta insomma come se questo “traguardo”, se vogliamo chiamarlo così, non fosse mai stato raggiunto. Il risultato raggiunto con la sentenza 242/2019, ha già determinato una legge dello Stato. Non è che si deve ancora discutere del merito. Lo potrebbe fare solo il Parlamento, l’organo legislativo nel nostro ordinamento istituzionale, qualora deliberasse una discussione in merito, come d’altro canto la Corte Costituzionale aveva chiesto”.

Ma il meccanismo che ne nasce non rischia di provocare confusione nelle fonti del diritto? In altre parole, il potere giudiziario non rischia di diventare fonte di legge entrando nel campo del potere legislativo, ovvero del Parlamento?

“Il problema nasce quando ci si trova di fronte a un vuoto legislativo, e la Corte viene richiesta di interpretare le norme su questioni urgenti e non differibili. Ispirandosi a un modalità messa in atto per la prima volta dalla Corte Costituzionale Federale tedesca, i giudici costituzionali possono, pur accertando l’irregolarità della norma chiamata a giudizio, chiedere al Parlamento di legiferare entro un termine per “riaggiustare” la norma. Puntualmente, il Parlamento resta inerte. A quel punto, la Corte sostanzialmente costruisce una norma con una sentenza additiva di accoglimento. Ovviamente, la Corte fa quello che ordinariamente spetta al legislatore. D’altro canto, la bellezza della nostra Costituzione è anche questo, vale a dire, il ruolo e la capacità di una Corte Costituzionale di superare i blocchi del sistema”.

Foto: Gesuiti.it

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