La storia, i successi, il ruolo fondamentale che il Venture Capital ha avuto nella rivoluzione digitale è il tema di un saggio del giornalista britannico Sebastian Mallaby già editorialista del Washington Post, corrispondente di punta del Financial Times, per 13 anni all’Economist, autore tra l’altro di un libro su Alan Greenspan, il mitico presidente della Federal Reserve dal 1987 al 2006, “The world’s banker”.
Il saggio tradotto da Armando Sternieri e pubblicato da Thedotcompany Edizioni si intitola “The power law – Il venture capital e la creazione del nuovo futuro, miglior libro sul business del 2022 per l’Economist , entrato tra i best seller della saggistica economica internazionale che venne all’attenzione del grande pubblico negli anni 80 quando con il boom delle borse e l’avvento della finanza come protagonista dello sviluppo e non come ancella dell’economia reale divennero temi popolari le battaglie per le fusioni e le acquisizioni. Si affermarono allora strumenti finanziari speculativi come i titoli derivati, gli hedge funds, i junk bonds, titoli “spazzatura” che pagavano rendimenti altissimi per l’alto rischio che incorporavano.
La finanza prese la scena nei media nel bene e nel male grazie agli ingredienti di avventura, rischio, coraggio, scommessa, con protagonisti buoni e cattivi, cavalieri bianchi e speculatori senza scrupoli, vincenti e perdenti, che portava con sé. Non più grigi banchieri impegnati a leggere dati e a interpretare grafici.
Un libro fra tutti: Barbarians at the Gate: The Fall of RJR Nabisco un classico della letteratura che riguarda gli albori del private equity e del leveraged buyout di Bryan Burrough e John Helyar, i giornalisti del Wall Street Journal che alla fine degli anni ’90 pubblicarono una serie di articoli sulla storia di RJR Nabisco e il take over ostile condotto da KKR, la società di investimento di Kohlber, Kravis e Roberts .
Siamo nei ruggenti anni 80 con l’ascesa e la caduta di Michael Milken il simbolo dell’avidità di Wall Street soprannominato Junk Bond King, il re dei Junk Bond, condannato per insider trading, così come quelle di Ivan Boesky considerato il genio che sapeva prima degli altri su quali titoli investire e che è scomparso il 21 maggio scorso a 87 anni. Qualcuno gli spifferava informazioni sensibili dall’interno delle società.
Il boom della borsa (brevemente interrotto dalla mai veramente spiegata crisi del 1987) era anche il frutto della legislazione promossa dal Congresso e dal presidente Ronald Reagan nella direzione di una liberalizzazione delle regole e dei vincoli ai quali erano sottoposti i grandi fondi pensione (che non a caso avevano nomi come Prudential e Fidelity) e di una graduale riduzione della tassazione sul capital gain.
Dall’altra parte del Paese, sulla West Coast, a sud della baia di San Francisco vicino alla Stanford University, stava crescendo da vent’anni, un altro strumento finanziario che si sarebbe imposto nei successivi trenta. Il Venture Capital, il capitale di rischio destinato a finanziare l’avvio di attività in settori a grande potenziale di sviluppo e innovazione, ma caratterizzato da una elevata possibilità di fallimento. Internet, sistema di comunicazione stava uscendo dalla nicchia di strumento militare sviluppato dal Pentagono e le università avevano cominciato a utilizzarlo per i grandi vantaggi offerti per esempio dal servizio di e.mail.
Questo convergere dei flussi di denaro con il fiorire tumultuoso dell’innovazione generando la possibilità di un accelerato trasferimento tecnologico dai centri di ricerca pubblici all’industria è il tema del volume di Malleby.
Power law, la legge di potenza, è quella che in matematica descrive distribuzioni di probabilità che, applicata al venture capital, mostra che un piccolo numero di scommesse enormi e ad alta probabilità è meglio di una grande quantità di scommesse di medio cabotaggio e che il miglior investimento in un fondo di successo equivale e supera l’intero resto del fondo. In poche parole i grandi ritorni sono possibili da una percentuale relativamente piccola di start up nelle quali si è investito. La forza che guida il VC è dunque il rapporto sproporzionato fra successo e fallimento. Chi vince la scommessa avanza a un ritmo esponenziale estremamente accelerato. Una delle società più importanti, Accel, per esempio, ha ottenuto il 95% dei profitti dal 20% degli investimenti. L’avvertimento: il modo migliore per gestire il rischio è abbracciarlo.
Non sono i “cigni neri” di Nassim Taleb i “grandi slam”, gli unicorni che superano in borsa una capitalizzazione di un miliardo di dollari, ma il frutto di preparazione, studio, rapporti personali, intuizione, competenza nel valutare le idee degli ingegneri e dei ricercatori che lavoravano nelle grandi aziende e nei laboratori universitari.
Il libro mantiene tutte le promesse di un best seller con i personaggi, i caratteri, il sorgere delle grandi idee. Malleby parte dai primi venture capitalist come Arthur Rock, che considera il vero capostipite di questa forma di “aggressiva cultura dell’equity” negli anni 60 o Tom Perkins e Don Valentine, la seconda generazione, per arrivare fino ai nostri giorni. Rock per l’autore è colui che ha ideato e sperimentato per primo il modello che ha garantito il grande successo del VC: un fondo a tempo limitato di sole azioni per investire sul valore intellettuale delle imprese piuttosto che sulla base di parametri finanziari che, nel caso di start up, early bird, dalle prospettive non quantificabili e lontane dall’essere aziende, sono un impaccio e un ostacolo rispetto alla capacità di intuire le potenzialità di un’idea e al genio di chi l’ha prodotta.
Contano perciò le relazioni, gli incontri sul piano umano, al di là dei pregiudizi e delle convenzioni, del mettersi nei panni dell’altro con l’attenzione concentrata sull’obiettivo comune di produrre ricchezza. E’ il cosiddetto “effetto network”. Sand Hill Road, dove sono riunite le principali aziende di VC, è un cluster di club di gentiluomini che hanno reso possibile il libero flusso di idee, favori, connessioni.
E’ nato così il modello Silicon Valley di competizione e cooperazione (coopetition) , al quale forse potrebbero assomigliare molto approssimativamente ad alcuni distretti italiani descritti da Giacomo Becattini. Fra investitori e ingegneri fondatori ( che sono “un mix di idealismo e cattiva gestione”) si viene a creare un rapporto anche conflittuale, ma nello stesso tempo di stima e fiducia nel quale ha un ruolo importante l’affermarsi della cultura libertaria di quegli anni: le idee, il talento, le ambizioni, le aspirazioni dei giovani che non accettano più imposizioni e gerarchie.
L’intelligenza dei primi VCS è stata quella di superare i pregiudizi, fidarsi del loro ingegno con l’obiettivo di creare aziende ad altissimo tasso di sviluppo grazie al web, gigantesco moltiplicatore di opportunità e prospettive nel mercato mondiale nel quale opera, di utenti che accrescono in modo esponenziale il valore della rete da fare impallidire la legge di Moore sui semiconduttori. La missione di Rock e compagni è stata quella di “liberare il talento”.
In questo contesto hanno visto la luce successivamente Google, Facebook, Space X, Alibaba e prima di loro Cisco, Netscape e Yahoo!. Non solo Internet e digitale, ma anche altri settori hanno beneficiato dei VC, anche quelli ad alta intensità di capitale. I router, le connessioni, i motori di ricerca, l’e.commerce etc., ma anche genetica, vaccini, energie pulite, robotica medica, satelliti, rifiuti nucleari. Non a caso il libro comincia con l’idea del genetista Patrick Brown al quale era venuta l’idea di creare una simil-carne di origine vegetale che finanziò Vinod Khosla uno dei venture capitalist che sosteneva che “il progresso è inseguito da uomini irragionevoli e creativamente disadattati”.
L’altra faccia della medaglia è che l’incontro fra il VC e l’innovazione mise il turbo alla distruzione creatrice teorizzata da Joseph Schumpeter: aziende nate e scomparse in breve tempo, settori produttivi stravolti, centinaia di attività chiuse. Quando c’è molto denaro crescono anche le frodi come Theranos della Holmes o le megalomanie sfrenate come quella mostrata da Adam Neumann fondatore di WeWork.
La tesi di Mallaby è che il modello virtuoso di Rock perfezionato dai vari Perkins, Valentine, Moritz, Leone, Thiel, Andreessen, Horowitz, Doerr etc. – la ricerca di un mercato target redditizio, un fossato naturale contro i concorrenti, un team con un’esperienza consolidata e motivazione dei dipendenti attraverso le stock options – è andato declinando, soprattutto dopo la bolla tecnologica dei primi anni 2000 che fece crollare a Wall Street il listino Nasdaq dei titoli tecnologici dell’80%, a causa dell’attività di super finanzieri internazionali (Shen, Son, Milney) quelli del blitzscaling, che hanno inserito nel ciclo di investimenti, masse di denaro senza limiti con cifre da capogiro in quella che veniva definita minimalisticamente una “cottage industry” . Il motto di questi turbo capitalisti è: più folli, più veloci, più grandi.
I nuovi VCS non dovevano affrontare il rompicapo della creazione di un’azienda dal nulla, ma solo rovesciare denaro per far crescere le aziende e acquisire posizioni dominanti: chi vince prende tutto. Favorendo così l’avvento di giganteschi monopoli: un gruppo di “unicorni” possono vendere i loro prodotti sottocosto, distruggendo gli operatori storici non necessariamente perché sono tecnologicamente superiori, ma perché sono sovvenzionati dai dollari dei VC.
Questa pioggia di denaro ha avuto spesso l’effetto di ritardare la quotazione azionaria delle aziende che restavano quindi fuori dalla governance e dai controlli del mercato azionario e avevano solo l’effetto di scatenare l’ego dei fondatori. Anche Sequoia e Andreessen e Horowitz, i VCS più importanti, hanno aumentato i fondi e diversificato. Del resto oggi gli investitori si chiedono perché scommettere su start up dalle prospettive incerte quando i grandi fondi del mercato pubblico promettono ritorni spettacolari? Siamo lontani dai programmi dei VCS che sostenevano che il futuro “non può essere previsto, ma scoperto”.
In uno stile narrativo che fa propri i registri tipici del best seller, l’epica, il dramma, il contrasto di caratteri e personalità straordinarie, Malleby mette correttamente in luce gli aspetti negativi della stagione d’oro del venture capital. Paul Graham, cofondatore dell’incubatore di start up Y Combinator, personaggio importante della storia, ha definito i VCS “alternativamente codardi, avidi, subdoli, prepotenti” . Del resto il loro lavoro era quello di raggiungere il massimo rendimento al momento in cui la start up facesse una IPO per quotarsi in borsa, cioè al momento della verità del valore che gli è stato attribuito dagli investitori. Da qui la spinta a fare rientrare fondatori e ingegneri nello schema preordinato con tutta l’azione manipolatoria per farlo nell’interesse di tutti di arricchirsi.
Le critiche al venture capital sono di tre specie, riassume Malleby. Primo: il settore è più bravo ad arricchirsi che a sviluppare imprese socialmente utili; secondo, il settore è dominato da un ristretto club di uomini bianchi; terzo l’industria del capitale di rischio incoraggia i distruttori fuori controllo, senza alcun riguardo per coloro che vengono distrutti. Sono contestazioni che Malleby in parte condivide. Soprattutto ammette che dovrebbero prendere più seriamente la diversità.
Tuttavia, l’autore ritiene che “il contributo di VC alla commercializzazione della scienza applicata” e il suo essere particolarmente adatto a finanziare beni immateriali (il valore contabile intellettuale di Rock) compensano ampiamente questi difetti. “Le attività immateriali sfuggono alle regole contabili standard e il loro valore è oscuro”. I venture capitalist esperti sono di conseguenza meglio equipaggiati per allocare il capitale in questo mondo sconcertante: un mondo in cui i beni tangibili sono sostituiti da beni immateriali”.
Finanziando le aziende più dinamiche, i VC generano una ricchezza e una R&S enormi e creano le reti che guidano l’economia della conoscenza. E aggiunge “Naturalmente c’è una miriade di problemi sociali che l’industria del Venture non risolverà e altri che potrebbero esacerbare la disuguaglianza”. Ma trovare la soluzione, è il suo parere, non spetta a loro, spetta alla politica e alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza.
In ogni caso l’analisi di Mallaby non conforta l’entusiasmo di coloro che hanno paragonato la Silicon Valley alla Firenze del Rinascimento (ricchezza, saggezza e genialità), combinando i punti di forza della società con quelli del mercato. Se guardiamo oggi che cosa sono diventate le cosiddette big tech, monopolisti dei big data, sfruttatori di valore intellettuale e di dati personali, difficile dire che grazie a loro siamo agli albori di un’umanità migliore. Apple, Microsoft, Nvidia valgono oltre tremila miliardi di dollari ciascuna. La capitalizzazione di mercato di queste tre somiglia, da sola, all’intero prodotto interno lordo dell’area euro.