Di questa stagione 2022-2023 nel panorama italiano ( ma di valore anche europeo) un film memorabile e di classe purissima è La Stranezza di Roberto Andò presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022 e uscito a fine ottobre scorso riuscendo a mettere d’accordo risposta di pubblico e apprezzamento della critica (4 David di Donatello 2023 e Nastro d’Argento 2023 al miglior film dell’anno. Roberto Andò , palermitano del 1959, a questo punto è una conferma per il cinema italiano e non solo, con un quasi trentennale percorso di opere in cui ha perseguito con coerenza ed impegno intellettuale una sua idea di cinema come arte dell’immagine, ma anche veicolo di suggestioni culturali mai banali, benché a volte velate da qualche eccesso di patina e ridondanza.
In realtà il nostro ha alle spalle una formazione decisiva con Leonardo Sciascia ( e una conseguente particolare sensibilizzazione all’opera di Pirandello) e con questa sua ultima prova è come se chiudesse un cerchio e si sentisse pronto per il suo lavoro più autentico, che attingesse alle sue radici più sincere e pulsanti: probabilmente qui fa i conti anche con l’altro suo maestro : Francesco Rosi di cui è stato aiuto regista e anche co-sceneggiatore (Dimenticare Palermo) e avendo inoltre alle spalle la collaborazione col Fellini di E la nave va, e con Cimino de Il siciliano, fino al Coppola de Il Padrino parte III. Il risultato in questa sua La stranezza è quello di giungere a una felicità espressiva e una compattezza, dove si libera anche degli eccessi di cui sopra , e ci regala un film che fa pensare e riflettere, ma con gioia. In altre parole riesce a renderci, a 101 anni dalla sua messa in scena, la fenomenologia del processo creativo che ha portato al concepimento e attuazione di un’opera basilare e spartiacque per il teatro ( e la letteratura in toto) mondiale e dispiegandocelo con uno spettacolo geniale e solare, a godimento anche dei non addetti ai lavori.
Nella realtà I sei personaggi in cerca d’autore , nella prima al Teatro Valle di Roma nel maggio 1921, sconcertò pubblico e critica, tanto sconvolgente e innovativa era la sua proposta di teatro e di temi . All’inizio fu quindi un fiasco clamoroso. Un colpo che avrebbe abbattuto un toro. E invece questo omino sempre trattenuto sapeva il fatto suo e tirò avanti, pur nelle sue disgrazie familiari, e nelle sue “stranezze” cui dava corpo artistico, come questa sua prima al Teatro Valle, una rivoluzione radicale e permanente , rispetto a quella transeunte e trasformista, che si autocelebrò un anno dopo con la Marcia su Roma. Questa finì in vent’anni nella polvere e nel sangue dell’intero paese , mentre l’attualità, e la potenza di quella messa in opera dal grande autore di Girgenti, continua a dare i suoi frutti ancora di più e a stupire in ogni dove del pianeta.
Se infatti non si ha presente che cosa ha significato quest’opera di Pirandello un secolo fa , rivoluzionando tutti gli schemi, non si riesce a cogliere fino in fondo la genialità inventiva di Andò ne La stranezza e l’operazione raffinata di metateatro, e di cinema che pensa il teatro d’autore ( e che autore) che a sua volta nasce dal concime fumante di un teatro amatoriale sgangherato nelle lande più arse e marginali dell’agrigentino, dove – e qui il massimo della genialità – si forma la materia viva, dolente e cialtronesca assieme, quel turbine di passioni, umori, malmostoso in bilico tra voglia di vita e istinto di morte, che diede lo spunto a questo capolavoro di Pirandello; che d’altronde ha sempre attinto fin dalle sue Novelle per un anno, alla materia prima di quest’umanità quotidiana e straordinaria dove Picone e Ficarra sono guitti-interpreti meravigliosi, come quarant’anni prima lo erano stati Franchi e Ingrassia ne La giara del fratelli Taviani. Questo teatro a cielo aperto e serrande chiuse, che generava a getto continuo storie e personaggi dove l’assurdo, il mistero, la tragicommedia della vita diventava plastica creta che il genio visionario e la capacità di linguaggio inesauribilmente creativo dell’uomo di Kaos trasformava in personaggi e scene teatrali sconvolgenti e fiammeggianti che da allora hanno parlato e continuano a parlare alla condizione umana di ogni continente e lingua.
Il raffinato regista Andò che indugiava a volte sull’eleganza delle forme e delle scene, qui, a contatto con la materia prima del teatro, abbatte anche lui una sua quarta parete interiore, fa entrare in scena il pubblico protagonista non ha bisogno di rimirarsi nel monitor del girato, e alla fine ottiene il miracolo di farci entrare dentro anche noi spettatori del film nel caravanserraglio della vita e finzione sempre mischiate, come la intendeva e rendeva Pirandello: addirittura par di sentire l’ afrore sudaticcio di quei palchi di periferia , il sapore della polvere di quegli anfratti, dove l’alto è sempre unito all’infimo.
E non c’è bisogno di alcuna mediazione culturale intellettualistica, perché Andò ha toccato terra come Anteo, e la terra è la sua Sicilia, che è anche la Sicilia di Sciascia, di Pirandello, ma anche di Ficarra e Picone che recitano la vita perché hanno in sé quella teatralità speciale del siciliano mutuata dalla gestualità e tonalità trasmessa da retaggi antropologici greci, arabi, spagnoli, capaci di cuntari storie all’infinito sia nelle piazze coi pupi , che negli scantinati sdirruppati come questi due becchini che recitano a soggetto la loro tragicommedia “La trincea del rimorso, ovvero Cicciareddu e Pietruzzu“. e non sanno che stanno ispirando uno dei capolavori di un futuro premio Nobel 14 anni dopo, laureato in glottologia a Heidelberg, ma nato nelle loro stesse terre amare e riarse. E Andò valorizza , da grande direttore d’attori, un duo che a prima vista poteva sembrare un azzardo e invece si sposa appieno con l’atmosfera stralunata e surreale che voleva creare. Anche se Ficarra e Picone erano già stati ampiamente valorizzati dieci anni prima da Tornatore nel suo Baharia , addirittura ancora più drammaticamente.
Ma Andò ci riesce riferendosi, senza scopiazzarli, ai Taviani di Kaos, anche se la carrozza che porta alle luci della sera Pirandello al suo luogo natale nella campagna agrigentina è comunque una bellissima citazione , come le luci chiaroscurali e le atmosfere che danno il colore di fondo a questo film, comunque solare e pieno di vivacità. Meraviglioso Servillo a darci l’essenza di un Pirandello contenuto, taciturno, e febbrile, come Sciascia, un Pirandello che si morde la mani e si fa sanguinare i palmi delle mani, e le nocche contro il muro, nello spasmo silenzioso con cui lotta per contenersi strenuamente, mentre al Valle quella sera di maggio 1921 gli gridano “vergogna!”, “manicomio!”, “impostore! ” . Ma lui era ben consapevole che rompendo la quarta parete e stravolgendo tutte le regole della messa in scena, “aveva piazzato una bomba sotto le fondamenta della società” come il suo coetaneo Freud quando, intravedendo il porto di New York rifletteva che ” questi americani non si rendono conto che gli sto portando la tabe nella loro società”, ed entrambi sapevano che “l’io non è più padrone in casa propria” e che “uno nessuno e centomila” è il destino delle nostre mutevoli identità nella crisi della perdita del centro nel primo trentennio del ‘900.
Oltre a Ficarra e Picone Andò ha ricevuto nel film l’apporto prezioso e intelligentemente complementare per i vari altri ruoli fornito da attori siciliani di grande spessore, tutti anche registi e autori animati da grande partecipazione e sensibilità all’operazione : oltre ad Aurora Quattrocchi ( (la balia), Donatella Finocchiaro (la moglie), Fausto Russo Alesi ( il padre , David di Donatello), Luigi Lo Cascio ( il capocomico), Galatea Ranzi ( la madre, siciliana d’adozione per via coniugale) , Giulia Andò (sua figlia, qui sorella di Bastiano e amante segreta di Nofrio) , Tiziana Lodato. Per il cameo di Verga si è affidato al carisma di Renato Carpentieri che fa il pari con quello di Servillo per Pirandello : entrambi campani, ma ben portatori di una comune identità culturale fra le Due Sicilie , mai così stretta e significativa.
La stranezza alla fine non era affatto tale per Pirandello, ma era la sua quotidianità che nasceva da quel magma profondo che era la convivenza con la follia familiare, coi suoi fantasmi che lo visitavano, colla ridda di personaggi che gli si affollavano nella sua immaginazione febbrile di cuntastorie , e che lo sollecitavano nella lucidità del giorno , fuori della porta per strada, nelle piazze, in questo eterno teatro a cielo aperto che era ( è) la sua Sicilia dai mille contrasti e mille misteri. Dei mille Bastiano e Nofrio pronti ad imbastire una tragicommedia , mentre fanno i beccamorti per la tata del Maestro appena morta ( Aurora Quattrocchi) .
In conclusione è interessante l’operazione di Andò per molti versi , tenuto conto del suo retroterra culturale e delle sue opere precedenti. Andò non è un autore che insegue il mainstream del momento , ma fa un cinema colto, raffinato, e a fin troppo elegantemente patinato, e comunque sempre un cinema metalinguistico, e le sue opere precedenti sono state tutte disseminate da citazioni ma anche a mostrare che il fascino del cinema in generale sta nella sua capacità evocativa attraverso un esperienza polisensoriale per cui c’è una moltiplicazione dei piani della realtà che diventa più ancora bigger than life, ma anche più fluida e verosimile.
Nei precedenti film ciò aveva sortito una sofisticata messa in scena molto francese , e a volte hitchcockiana, ma troppo ad orologeria, che però non riusciva a dissimulare qua e là i congegni del segreto lavoro di carpenteria dietro l’organizzazione della macchina narrativa. Ora invece con La stranezza, da una parte Andò va incontro a Pirandello , gli si affida, cerca solo d’entrare nel mare aperto del suo mondo immaginativo incandescente, alzando i remi intellettualistici, e solo con gli strumenti intuitivi de La conoscenza del poeta ((definizione mutuata da una saggio di Musil che parla anche di cinema) , ma quella de La stranezza è la poesia ingenua che anima Bastiano e Nofrio, spettatori e teatranti dilettanti e rozzi che diventano a loro volta prima autori, poi ispiratori ,infine spettatori dell’opera compiuta dei Sei personaggi al teatro Valle .
E nello stesso tempo Andò , con il nuovo linguaggio dello strumento cinema chiama in campo aperto il grande maestro col suo gioco di specchi, è come se esortasse Pirandello stesso a giocare con lui su un terreno altro che l’uomo di Girgenti non poteva possedere ancora. Ai suoi tempi infatti ( tra il ‘20 e il ’21 ) il cinema ebbe il sonoro solo una decina d’anni dopo , le sale avevano ancora un imbonitore che “narrava” la pellicola , che non era ancora di 24 fotogrammi al secondo, e la musica al massimo era quella di un pianoforte suonato non certo da un compositore di colonne sonore specifiche. Il grande Maestro considerava allora il cinema “soprattutto un sistema di macchine voraci” e la sua verosimiglianza rispetto allo spettacolo d’arte vivente che era il teatro si rivelava impietosamente a vantaggio di quest’ultimo , di fronte a quello strano aggeggio che a manovella proiettava strani fotogrammi a scatti ridicoli, con un imbonitore e un triste ‘pianista sull’oceano’ : poi di un senso ed emozioni tutte ancora da venire.
A questo punto Andò fa nello stesso tempo a Pirandello un ulteriore estremo omaggio proprio nl momento in cui osa andare oltre lui . E’ come se l’allievo gli dicesse in un immaginario Colloquio col padre ‘culturale’ : “ Vedi Maestro, tu m’hai insegnato questa moltiplicazione di giochi di specchi e come passare dal piano della materia rozza alla forma sublime, e dalla continua commistione tra finzione e realtà, tra vita e forma : ora io ti chiedo di verificare assieme a te, se con questo nuovo linguaggio del cinema – divenuto molto più sofisticato di quello che era ai tuoi tempi- si possa riuscire a fare un qualcosa che rimane della tua sostanza , ma moltiplica ancora di più il gioco di specchi che tu ci hai insegnato”. E infatti le sfaccettature in cui si muove Donatella Finocchiaro nell’interpretare i vari piani delle turbe mentali della moglie di Pirandello, Maria Antonietta, hanno questa valenza. Come pure il fatto che solo alla fine veniamo avvertiti , e non ce ne siamo mai accorti, che tutta la storia di Bastiano e Onofrio, e della commedia da loro imbastita, in realtà non è mai esistita storicamente. Non abbiamo infatti alcuna prova storica o scritta di Pirandello che ne faccia minimo cenno. E sempre nello stesso senso tra realtà e finzione, nel film avviene la verifica che, alla domanda del maestro all’ assistente di scena, – “se tali Bastiano Vella e Onofrio Principato della omonima Filodrammatica di Santa Lucia”- abbiano ritirato o meno i biglietti dello spettacolo al Valle di Roma nel 1921 , cui egli li aveva formalmente invitati, e su cui sta per alzarsi il sipario , quello gli risponde secco che “nessuna persona è venuta a ritirare a quei nomi e cognomi alcun biglietto”.
Addirittura i due sono divenuti, prima della scena cruciale del film , solo due fantasmi partoriti dalla fantasia dell’autore e poi svaniti nel nulla. Ma Nofrio e Bastiano in realtà ( ma quale?) nel film sono invece nell’ultima scena ben dentro al Valle e ne rimangono chiusi e soli, perché a spettacolo finito, già prima di tutti gli altri, il maestro e la figlia hanno abbandonano precipitosamente il teatro per sfuggire agli improperi del pubblico inferocito. Ed emblematicamente Nofrio e Bastiano aspettano con pazienza, come da un segreto copione (dettato dall’Autore? Quale? Andò ? O Pirandello? ) che qualcuno all’alba del giorno dopo li venga a liberare; e così si congedano da noi semplicemente ed emblematicamente abbracciandosi e sospirando : “ tanto quello che dovevamo fare lo abbiamo fatto bene”. Cosa c’è di più pirandelliano di tutto questo? Qual è la realtà? E la finzione?
Non possiamo evidentemente sapere , anche noi immersi nel gioco pirandelliano , se il Maestro abbia approvato o meno – dal Colloquio immaginario nel suo mondo parallelo – l’operazione di Andò, se questa l’abbia convinto, se avesse delle osservazioni da fare in proposito. E quali. Ma certo possiamo intanto lanciare un piccolissimo umile ponte anche noi sul piano di thedotcultura , far galleggiare la nostra letterucola in bottiglia: abbiamo letto che su questo magazine il 29 giugno 2023 è apparso un pezzo a titolo “ il valore formativo delle immagini pensanti”, a firma di Marco Salucci. Non intendiamo certo entrare qui nel merito del suo testo, ma ci ha fatto sentire meno soli nell’oceano del web. E anche la voglia di leggere bene il suo “ Dalla mela di Newton all’ arancia di Kubrick”.
Soprattutto Salucci definisce con rigorosa chiarezza l’universo di discorso su cui parlare con minimo senso di cinema- filosofia. Siamo molto attratti dal suo approfondimento delle due correnti di pensiero di J. Cabrera e T. Wartenberg che affrontano da tempo l’argomento, e per i quali il cinema può fare filosofia in modo suo proprio ; oltre che affascinati e arricchiti dalla lezione di Gilles Deleuze di quarant’anni fa, e agli orizzonti e i criteri che continua a dischiuderci.
Ora intanto non ci sogniamo affatto qui di collocare l’operazione di Andò in uno dei due versanti con cui gli studiosi citati da S. declinano questa possibilità del cinema di produrre in proprio filosofia. E assumiamo ancora l’osservazione di Salucci per cui “è intuitivo che il cinema sia più prossimo alla letteratura che alla scienza”. E anche la distinzione degli assunti di partenza da cui partire per i quali la “filosofia significa : a) argomentare, dimostrare, fornire ragioni a sostegno di una tesi, oppure , b) solo evocare, suggerire, intuire”… “Filosofare non è semplicemente pensare: è un modo ( un metodo) di pensare”…” Questo modo ha anche un suo mezzo di elezione che è il linguaggio verbale il quale, a sua volta, nella specie homo sapiens, è il veicolo privilegiato del pensiero astratto”. Conclude S. che il “concetto-immagine introdotto da Cabrera, non è un concetto , ma la metafora di un concetto” .
Detto questo l’unica cosa che ci permettiamo di sottolineare, per entrare in un qualche discorso di senso, è quanto accennato prima : e cioè ipotizzare che La stranezza è percorso e sostenuto da una sorta di pensiero poetante , che siamo nel territorio de “la conoscenza del poeta” di musiliana memoria, e che ci si possa riferire a quella che Leopardi e Schiller chiamavano “poesia ingenua” , per distinguerla da quella mediata dal pensiero riflesso. Quanto all’ingenuità primitiva, ammesso che il letterato Andò la volesse perseguire, beh, è tutta un’altra faccenda. E quanto tutto ciò nella Stranezza possa essere pensato anche come “immagini pensanti” lo lasciamo a un interscambio. Parliamone. “… Se vi pare”.