Firenze – A ben vedere, dopo tanto anni, fu come un lampo. Ma destinato a lasciare il segno. Non svanì in quella notte di più di 40 anni fa. A rivederlo ora sullo schermo, scheggiato nel documentario “Patti in Florence” di Edoardo Zucchetti che domenica in streaming sulla piattaforma Più Compagnia inaugura la 61esima edizione del Festival dei Popoli, fa un po’ come eravamo, il tempo ritrovato della militanza e della controcultura.
Roba andata. Segnaletica e meccanismi stelle e strisce inesorabilmente fuggiti via di là dall’oceano. Ma che in fondo stentano ad invecchiare (anche se Patti quella volta la bandiera Usa e l’ode a Papa Woityla se le poteva risparmiare) tanto che ancora tiene botta il fastidioso quanto evocativo “io c’ero”. Che poi davvero c’eravamo.
Anche perché non solo spettatori ma organizzatori (noi “figgicciotti di Radio Centofiori) di quel 10 settembre 1979, alla stadio ancora Comunale, dove la Festa dell’Unità, che era la “Festa dell’Unità” che accanto alla rosticciana, al liscio e ai brigidini ci trovavi magari l’Odin Teatret e ci pescavi fotogrammi del “cinema novo” brasiliano, si inventò la “nouvelle vague” dei grandi eventi rock, onda lunga che da lì sarebbe partita per non esaurirsi.
Si aspettavano in tanti a Firenze (dopo la prima tappa bolognese) ma non così tanti. Il diavolo nervoso di Patti Smith, eroina di rovina giovanile, come alcuni scrissero con accaldato fervore, tanto da meritarsi la copertina dell’Espresso, ne richiamò 70mila, forse un po’ meno, ma fecero impressione. E un po’ paura perché l’onda d’urto (che alla fine non fece danni come paventato da più parti, solo rifiuti e cartacce sul prato della Viola, uno “scempio” che la La Nazione si premurò di documentare in prima pagina) spiazzava il controllo e non si capiva la portata dell’utopia che il rock riusciva ancora a trasmettere, pure in quegli anni bui che sarebbero diventati di piombo.
Facce di capelli lunghe e barbe e sacchi a pelo e pantaloni a zampa d’elefante e moto Guzzi e bivacchi con chitarre arrivarono da tutt’Italia (e non solo) a scomodare la paciosa sufficienza della gente fiorentina. E a innescare un futuro invadente che avrebbe partorito anni di gloriose avventure musicali. Arenatesi sullo scoglio dei Rolling Stones, 1982. Firenze, l’unica città al mondo capace di rifiutare un concerto di Mick Jagger e compagni. Ci vuole perizia. E stile. E faccia tosta. Una notevole insipienza. Chapeau! Niente da fare, la politica fece i suoi conti (da piccola provincia altro che capitale), l’assessore del garofano alla cultura di Palazzo Vecchio pure, altre lobby (leggi la socialista Controradio vs la comunista Centofiori) si misero di traverso, il concerto saltò e ci toccò “espatriare” a Torino.
Ora se non fosse per le foto rigorosamente in bianco e nero di Stefano Rovai, Saulo Bambi e di un giovanissimo già avventuroso Massimo Sestini che, autorizzato, s’imbucò fin quasi a bordo palco, del concerto di Patti Smith a Firenze che cambiò la vita della protagonista e le regole del gioco della cultura giovanile in Italia, sarebbero rimaste solo le cronache e le polemiche dei quotidiani e le testimonianze di chi quel 10 settembre del 1979 allo stadio ancora Comunale era uno dei tanti. Non un filmato, una ripresa Rai, una immagine in movimento. Niente di documentato.
Son passati 40 anni ma sembra davvero un’altra epoca. “Per me Firenze – avrebbe detto e ripetuto Patti – resta il ‘concerto’ della vita, la mia Woodstock, un’esperienza unica e indimenticabile, irripetibile. La cosa buffa è che non avevo alcuna idea di quello che stava accadendo, doveva essere il mio ultimo concerto ma non immaginavo che sarebbe stato di quelle dimensioni. Ricordo che alla fine lasciammo il palcoscenico al pubblico che si impossessò degli strumenti, i microfoni, le attrezzature. Fu un gesto simbolico e un atto liberatorio, come l’energia del rock, un bene che apparteneva a tutti”.
Non andò proprio così ma la memoria è benigna. Di questa “vicinanza” fiorentina, poi sfociata in altre occasioni, si fa appunto interprete e portavoce il doc del giovane Zucchetti, che nel 79 non era nato, e che qui sfodera un bel piglio di narratore partendo dal 2009, quando Patti tornò a Firenze per rinverdire quella memorabile esperienza di trent’anni prima.
“Per tutto il tempo che passò in città fui la sua ombra – racconta Zucchetti – con una telecamera mal funzionante, una manciata di nastri e una buona dose di incoscienza; volevo immortalare il suo girovagare e raccontare per immagini l’amore che aveva lei per la città e la città per lei”. In quel girovagare eccentrico, apparentemente senza meta, fatto di improvvisazioni, fra strade, musei, botteghe artigiane, teatri, applausi, selfie e autografi, Patti trasmette la sua amicizia, riconoscenza, devota ammirazione per una città che non l’ha dimenticata e che, oltre al concerto della vita, le regalò un palcoscenico immortale: la Tribuna del David al Museo dell’Accademia.
La tre giorni del 2009, come attesta il filmato, riprendeva le fila del ’79 per riaffermare l’orgoglio della primogenitura. Sono riapparse, ripescate dai “souvenir d’antan”, le fotografie dello stadio, la gente in attesa, le curve e la maratona così com’erano con la pista d’atletica prima dei guasti di Italia 90, e quel palco miserello sotto la Fiesole, tirato su a tubi innocenti dai volontari della Festa, l’amplificazione e le luci che era quelle della Pfm perfette per 3mila persone ma non 70mila, le transenne di legno (quelle usate nei seggi elettorali), il dopo gara, il prato un campo di battaglia, e tutto che sapeva (anche se non ce ne rendevamo pienamente conto) di inizio di qualcosa che avrebbe cambiato le regole della musica dal vivo in Italia.
Foto che facevano (e ancora fanno sullo schermo) tenerezza, come una tacca di nostalgia. Che se ci sei stato non puoi evitare. Per Patti, e per molti noi, quello fu il “suo” e il “nostro” concerto. Anche se lei lo addolcisce perché alla fine i ragazzi salirono sul palco e l’incontro non fu così idilliaco e liberatorio come va dicendo. E ne sa qualcosa il fotografo che si beccò di tutto e di più dalla rabbia giovane di Patti. Che ancora mischiava punk rock poesia con tribale introspezione.
La Patti ritrovata, dopo tante missioni di pace e denuncia, dopo scelte scomode e canzoni censurate, passioni e dolori, nel rigoroso determinismo di essere una voce scomoda, contro l’impoverita America bushiana, nel 2009 riabbraccia Firenze. E allora tutti a tirarla per lo spolverino. Organizzatori, assessori, ristoratori, direttori, semplici cittadini. Patti al mercato che parla con le massaie che fanno la spesa, che gira per il centro, imbraccia la chitarra e si tira dietro gli spettatori improvvisati come un pifferaio magico, che visita musei, Casa Buonarroti, il Bargello, Palazzo Vecchio, che scatta foto qua e là, che parla con tutti, incontra gli studenti della New York University e i giovani musicisti del Rock Contest, che tiene reading dove capita, che entra al buio in un teatro Niccolini che aspetta di essere restituito alla città, che improvvisa set e azioni perfomative, mentre benedice il pubblico del Puccini venuto a vedere l’autocelebrativo “Dream of live” di Steven Sebring e inaugura alla galleria Poggiali e Forconi la mostra delle sue polaroid uscite per la prima volta in Italia per finire sull’arengario di Palazzo Vecchio dove dal vicesindaco Nardella riceve il primo tesserino di “artista di strada” del Comune di Firenze.
Poi il concerto in Piazza Santa Croce. Dal palco snocciola qualche pillola di buon senso shakerata alla chitarra (“oggi il potere economico ci ha reso tutti borderline, oggi siamo tutti in lotta perché ci hanno tolto il potere ma il potere è nostro, della gente e il rock deve diventare la voce della cultura”) e poi vai con “People Have the Power” con la gente che saltella e qualcuno timidamente agita persino il pugno (non si vedeva dai tempi d Guccini) col servizio d’ordine nero vestito da bravi steward (altro che i compagni del 1979) che non perdona e se qualcuno fa il furbo.
Una volta avremmo sfondato. I “figgicciotti” lo sanno bene. Le nostalgie del tempo brillano sotto la facciata della chiesa e accanto alla statua di Dante, le finestre aperte e i soffitti affrescati, e lei che decolla grintosa e proverbiale, con a dirci “sono tornata casa”. E con lei, in quella notte del 2009, sono tornati pure Lenny Kaye alla chitarra e J. Dee Daugherty alla batteria e Tony Shanahn al basso, pezzi del mitico Patti Smith Group, mancavano Richard Sohl e Ivan Kral, ma c’era Tom Verlaine, amico dai tempi newyorkesi al CBGB’s, il club dove era di casa insieme ai Television.
Fu come quello del 1979 concerto un po’ spartano, anche tecnicamente, posti in piedi, ma denso di verità. Partenza con “Frederick” che ha riaperto le ferite della vita, poi il ricordo di Fernanda Pivano, la maglietta aperta in bella vista di Emegency, i versi ginsberghiani di “Hole” e un’infilata di classici e la temperatura che sale: Redondo Beach, Free Money, Missing in the River, una magnifica Dancing Bare Foot impreziosita dai secchi ricami della chitarra di Verlaine, l’immancabile sigla Because the night e finalone orgiastico con l’inno transgenerazionale My generation e Rock’n’roll Nigger, trascinanti e catartici tirati all’inverosimile che hanno rotto l’equilibrio “pastorale” della scaletta. Con le corde della chitarra strappate dall’urlo “no more war, the future is now”.
Foto: Edoardo Zucchetti