150°: la festa, il popolo e le classi dirigenti

Le settimane che l'hanno preceduta sono state caratterizzate da polemiche, conflitti, perplessità, umori antiunitari. Si festeggia o non si festeggia? Si resta a casa o si va a lavorare? E' meglio che i ragazzi stiano sui banchi di scuola a parlare dell'Unità d'Italia o si godano felici una giornata imprevista di vacanza? In che modo potranno riflettere sulla fondazione di un Paese che si chiama Italia e che ha 150 anni di vita? Un dibattito ben strano se si pensa che era in ballo un evento storico lontano che dette il via alla comunità nazionale. Un dibattito che ha fatto dire a molti: ecco, vedete, siamo italiani ma non cittadini di uno Stato nazionale di cui si condividono etica e valori pubblici.
La polemica è partita da lontano e ha avuto come causa principale il fatto che la Lega Nord, partito decisivo per la sopravvivenza del terzo governo Berlusconi , ma con un chiaro programma separazionista, rappresenta la spinta esattamente opposta a quella che ha portato all'unificazione della penisola: federalismo o decentramento nascono come soluzioni di ripiego a quella principale del riconoscimento di una nuova entità geopolitica chiamata Padania. Non basta. Siccome quando si parla di politica in Italia le cose si complicano sempre, bisogna segnalare anche un paradosso. Come ha rilevato fra gli altri lo storico Alberto Maria Banti, i simboli risorgimentali come il Carroccio della Lega lombarda dei liberi comuni che sconfissero Federico Barbarossa, sono stati fatti propri dalla Lega, cioè da chi si propone di negare ciò che il Risorgimento ha creato.
Non pochi studiosi hanno messo in evidenza durante questi mesi che l'identità nazionale italiana è stata una costruzione relativamente recente e che nessuno aveva dato peso politico all'idea di una nazione italiana fino al XIX secolo. Infatti, se dall'esterno si parlava di Italia da parte dei grandi viaggiatori, degli artisti e dei letterati  (Reise nach Italien di Goethe), cioè si aveva la nozione di un paese unico nel quale Firenze, Venezia, Roma, la Sicilia erano declinazioni di una cultura della natura, dell'arte, del carattere abbastanza omogeneo, all'interno non c'era affatto il senso di un'identità comune, anche perché nei singoli stati si parlavano dialetti che a livello popolare scarsamente permettevano di comprendersi vicendevolmente.Non aveva dunque tutti i torti il principe Clemens von Metternich, che guidava il governo asburgico al Congresso di Vienna del 1815, quando affermava che l'Italia era un'espressione geografica.
Tuttavia , l'occasione per l'unificazione della penisola c'era stata ed era stata perduta. E questo è uno dei due aspetti  della discussione fra gli storici che ha accompagnato la ricorrenza del 150° anniversario per tutto il 2011, che vorrei mettere in rilievo. Ugo Dotti studioso di Dante e Machiavelli parla dell'umanesimo come della rivoluzione incompiuta. Quella grande intellettualità italiana – scrive – che seppe dare a tutta l'Europa gli strumenti per uscire dal sistema cristallizzato religioso medioevale (i presupposti per la laicità dello Stato) non riuscì poi nei propri confini  a realizzare lo stato unitario che gli altri grandi paesi seppero costruire in sintonia con la storia. In sostanza non ci fu quel contatto virtuoso fra gli intellettuali e il popolo-nazione (secondo la definizione di Machiavelli) e si venne piuttosto a formare un'aristocrazia intellettuale che non riuscì mai ad affrontare i problemi che il generale sviluppo borghese veniva sempre più imponendo all'Europa, la fondazione dello Stato unitario. Si creò dunque un fossato profondo fra la cultura e la massa, circostanza che Dotti vede evidente nella lingua, un volgare che non era quello di Dante, ma una sorta di lingua dell'aristocrazia intellettuale.
E' di nuovo la separazione fra classi politiche e intellettuali e il popolo che è stata evocata dalla pubblicistica apparsa nel corso di quest'anno. La questione risorgimentale si può riassumere con queste parole: per i teorici animati da un ideale che era nello stesso tempo politico e sociale come Giuseppe Mazzini, l'unità politica non era che un elemento o una condizione dell'unità morale e religiosa. Era questo l'obiettivo del movimento democratico che fu uno dei protagonisti del Risorgimento.
In sostanza il processo di unificazione non ha prodotto quella saldatura fra élite del potere e intellettuali e il popolo, che avrebbe favorito di più la nascita di una vera coscienza e identità nazionale. L'unità fu raggiunta grazie a due fattori essenziali: l'iniziativa popolare democratica, rappresentata dai plebisciti, da Garibaldi e i Mille e dalle rivolte nei territori della Chiesa, e quella monarchico-governativa del Piemonte e della sua politica di alleanze. Secondo Mazzini si doveva tenere un'assemblea costituente nazionale, allargare subito il suffragio, trasformare un'annessione in una rivoluzione. Invece vi fu da subito quella che Luigi Salvatorelli definisce "un'involuzione oligarchica".
Di fatto, con il fascismo e la lotta di liberazione dal nazifascismo la questione è rimasta alla base anche dei problemi attuali dell'Italia. La sconfitta nella seconda Guerra mondiale non solo aveva distrutto il fascismo, ma aveva anche dato un colpo gravissimo al prestigio dell'idea di nazione alla base dello Stato unitario. Al punto che nel 1987 Norberto Bobbio, uno dei grandi pensatori dell'Italia del Dopoguerra scrisse: "Non esiste un sentimento nazionale, un amor di patria, e l'Italia è tornata un'espressione geografica".
Questo distacco fra classi dirigenti e intellettuali nei confronti del popolo, anche se non impedì un effettivo progresso in senso democratico, è una malattia ricorrente. Non il collettivo popolare, ma il particolare individuale e oligarchico ha la parola principale. Ed è questo che mina alle fondamenta qualunque entità statale: perché i cittadini vi si possano riconoscere è necessario che questo funzioni, in modo che possano sentirsi tutti uguali davanti alla legge. E quanto  oggi sia vero il contrario è  l’attuale dramma nazionale.
Proprio nel tentativo di recuperare la tradizione unitaria e nazionale  è stato il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nel suo settennato cominciato nel 1999 a porre la parola fine a decenni di contrapposizione ideologica. Fino agli anni 80 la bandiera italiana era monopolizzata dalla destra, dai nazionalisti ed era un simbolo non del tutto condiviso a livello emotivo dalla sinistra, soprattutto quella comunista. Ciampi ripristinò la festa del 2 giugno, riaprì l'Altare della patria e volle che la bandiera diventasse un oggetto di attenzione quotidiana sugli edifici pubblici, nelle manifestazioni di ogni genere.
L'intento di Ciampi, uomo della Resistenza contro il nazifascismo, restò tuttavia compiuto solo in parte. La polarizzazione ideologica dopo la fine della guerra fredda non è scomparsa: su principi e obiettivi assai meno alti sono rimaste due Italie come scrive uno dei più lucidi politologi italiani, Edmondo Berselli, da poco scomparso: “Due Italie separate da un sospetto e un'animosità addirittura impensabili per chi ha in mente un Paese deideologizzato, secolarizzato politicamente, in una parola moderno". 

Le premesse sono dunque assai poco ioncoraggianti, ma vorrei anticipare subito che questa è una storia a lieto fine. Quest'anno, col passare delle settimane, infatti, l'atmosfera è cambiata. C'è stato da parte degli italiani una specie di scatto d'orgoglio nel riconoscimento della propria storia e della propria identità, certamente per gran parte dovuto all'impegno degli insegnanti e di quel volontariato che una grande qualità del popolo italiano.
Uno dei catalizzatori di questa riappropriazione è stato Roberto Benigni. In una delle sue più commoventi performance Benigni durante il Festival della canzone di Sanremo del 2011, raccontò agli italiani del sacrificio di tanti giovani, dei valori eroici del Risorgimento, del messaggio che questi giovani hanno lasciato alle generazioni future. Concluse il suo pezzo cantando, senza musica e con grande intensità, le due strofe dell'inno di Mameli.
Da quel momento –  per il concorrere di un grande impegno da parte delle istituzioni, gli enti locali, la scuola – la celebrazione dell'anniversario è stata fatta propria dalla gente. C'è stata, per esempio, un'inattesa corsa all'acquisto e all'esposizione di bandiere tricolori. Addirittura non se ne trovavano più in commercio e molti, come la moglie del sottoscritto, se la sono cucita a mano: esattamente come le donne delle battaglie per l'indipendenza. E lo spirito delle celebrazioni è stato colto pienamente. Come ha detto il presidente Napolitano nel suo splendido discorso alla Camera, "la memoria degli eventi che condussero alla nascita dello Stato nazionale unitario e la riflessione sul lungo percorso successivamente compiuto, possono risultare preziose nella difficile fase che l'Italia sta attraversando, in un'epoca di profondo e incessante cambiamento della realtà mondiale. Possono risultare preziose per suscitare le risposte collettive di cui c'è più bisogno : orgoglio e fiducia ; coscienza critica dei problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide da affrontare ; senso della missione e dell'unità nazionale. E' in questo spirito che abbiamo concepito le celebrazioni del Centocinquantenario".
E dunque più che un anniversario con il quale si sono fatti i conti con la storia, il 150° dell'Unità d'Italia alla fine è stato come lo stimolo per un risveglio dal sonno profondo in cui il Paese si è lasciato andare, convinto di avere problemi così grandi da non poterli risolvere. E' stata la maturazione della consapevolezza che molti dei mali dell'Italia nascono proprio da questo ricorrente distacco fra la classe politica e le aspirazioni di un popolo che ha sempre di più voglia di valori e di identità, soprattutto voglia di impegnarsi  per recuperarli. E gli italiani, una costante della loro storia anche e soprattutto quella risorgimentale, stupiranno ancora il mondo per la loro capacità di reagire e uscire da una crisi che dura ormai da troppo tempo.


Piero Meucci

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